Con freddezza propria delle statistiche, l’Istat ci ha comunicato che nel 2020 sono morte in Italia 746.146 persone e ne sono nate 404.104. Il deficit tra nati e morti nel 2020 è stato dunque di -342.042. Per trovare un deficit più alto, dall’Unità d’Italia, bisogna tornare al 1918, quando alle vittime della ‘spagnola‘ (quasi 650mila) si unirono quelle della prima guerra mondiale.

Il numero che più mi fa riflettere non è però quello dei morti (111.729 in più rispetto al 2019), in grandissima parte imputabili alla pandemia e dunque –speriamo!- destinati a tornare ai valori precedenti, ma quello dei nati (15.980 in meno rispetto al 2019), che continua inesorabilmente a diminuire: nel 2019 furono 19.663 meno del 2018, nel 2018 furono 18.404 meno del 2017, e così via. Il tasso di natalità (il rapporto tra il numero di nascite e la popolazione media) è progressivamente sceso dal 23,0 per mille del 1946 al 6,8 per mille del 2020: in assoluto tra i più bassi del mondo!

Non sono preoccupato per l’italianità in declino, né nutro nostalgia delle prolifiche famiglie “tradizionali” di una volta. E allora perché sono preoccupato? Perché interpreto questo dato come il sintomo di un malessere più profondo, una preoccupante diminuzione di speranza, un indebolirsi della voglia di pensare al futuro e di volerlo preparare.

Temo si tratti di un malessere solo marginalmente imputabile alla crisi attuale (va avanti da anni) e solo parzialmente attenuabile con una maggiore attenzione alle pur lodevoli politiche di welfare per la famiglia (assegno unico, più asili nido, congedi più generosi). C’è qualcosa di più.

Se si nascesse già “saputi”, con la maturità un po’ saccente di chi sa come va la vita e poca voglia di credere che le cose possano cambiare, non mi stupirei di questo tasso di natalità in picchiata; ma per fortuna i giovani non nascono così: non aver ancora fatto esperienza della vita è una incoscienza necessaria, è il terreno vergine in cui la speranza ha il suo habitat naturale e il desiderio di avere figli è il sintomo (simbolico e fisico) che il futuro è possibile e atteso. Ecco perché sono preoccupato, perché non avere voglia (o, peggio, avere paura) di avere figli non è affatto normale in una società, è lo scricchiolio improprio delle travi del nuovo viadotto.

In un suo recente articolo (QUI) Sergio Belardinelli richiama il pensiero di Hannah Arendt che afferma: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è radicata la facoltà dell’azione.”  E’ il nostro venire al mondo -continua Belardinelli- “la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita”.

Nati, morti, tassi di natalità, deficit demografico… sono solo numeri? Non è un po’ come se i giovani stessero perdendo la speranza, stessero ragionando come i vecchi, stessero trascurando quella feconda incoscienza in cui da sempre il futuro mette radici? Sarebbe davvero una sciagura! Abbiamo il dovere morale di sperare e -soprattutto- di consentire e stimolare la speranza di chi è più giovane di noi, dei nostri figli e dei nostri nipoti. Noi più avanti negli anni, abbiamo l’obbligo di spingere i giovani a credere nel loro futuro e ad impegnarsi a costruirlo con lo stesso entusiasmo e la stessa “leggerezza” che fu consentita a noi. “Gli uomini, non l’uomo, abitano la terra”, ripeteva spesso Hannah Arendt e proprio perché ognuno di noi scrive solo un capitolo di una storia più grande, mi piace sperare che quel tasso di natalità possa tornare a salire.