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La scorsa settimana è morto Paul Auster, uno dei più apprezzati scrittori americani, e vorrei  prendere spunto da una sua considerazione per riflettere su una delle insidie più preoccupanti che mina dall’interno la nostra possibilità di capire, capirci e agire.

In uno dei suoi primi romanzi (Città di vetro) uno dei personaggi sollecita così il suo interlocutore:

Consideri una parola che corrisponde a una cosa: «ombrello», per esempio. Quando pronuncio la parola «ombrello», lei nella sua mente vede l’oggetto. Vede una sorta di bastone con alla sommità dei raggi pieghevoli facenti da telaio a un tessuto impermeabile che, una volta aperto, proteggerà la sua persona dalla pioggia. Quest’ultimo dettaglio è importante: un ombrello non è solo una cosa, ma è una cosa che svolge una funzione… in altri termini, esprime la volontà dell’uomo. Se ci riflette un poco, ogni oggetto è analogo all’ombrello in quanto svolge una funzione. Una matita serve per scrivere, una scarpa per essere calzata, un’auto per essere guidata. Ora la mia domanda è questa. Cosa succede quando una cosa non svolge più la sua funzione? E’ sempre quella cosa oppure diventa qualcos’altro? Se lei lacera la tela dell’ombrello, quest’ultimo è ancora un ombrello? Spiega i raggi, se li pone sopra la testa, esce sotto la pioggia e si bagna. E’ possibile persistere a chiamare questo oggetto ombrello? Generalmente la gente fa così. Tutt’al più arriveranno a dirle che è un ombrello rotto. Per me questo è un grave errore, fonte di tutti i nostri disagi. Giacché non può più svolgere la propria funzione, l’ombrello ha smesso di essere ombrello. Può assomigliargli, può pure essere un ex-ombrello, ma ora si è trasformato in un’altra cosa. Tuttavia la parola è rimasta la stessa: perciò non rappresenta più la cosa. E’ imprecisa, è falsa: cela l’oggetto che dovrebbe svelare. E se noi non possiamo neppure nominare un oggetto comune, quotidiano, che teniamo nelle mani, come potremmo sperare di discorrere delle cose che veramente ci riguardano?” 

Una domanda tutt’altro che retorica, un dubbio quanto mai attuale: quando parliamo o sentiamo parlare (anche troppo in fase di campagna elettorale!) di “democrazia”, “partecipazione”, “inclusione”, “libertà”, “diritti”, “giustizia”, “mercato”… utilizziamo parole che -lo diamo per scontato- rimandano a significati noti e identici, rispetto ai quali si può essere più o meno d’accordo, avere opinioni concordi o discordi sulle scelte politiche ed economiche necessarie a perseguirli, ma -proprio per questo- non mettiamo in dubbio che stiamo discorrendo del medesimo oggetto. Ma è proprio così? Non è che a quelle parole è successo quanto accaduto all’”ombrello” di Paul Auster? che siano cioè diventate imprecise e ambigue fino a celare (e non più a rivelare!) i significati di cui sono segni?

A che serve litigare e accanirsi per difendere una determinata parola, se il suo contenuto è ormai ambiguo? se è dato per scontato ma scontato non è più? se quel contenuto non è più lo stesso per chi ne sta discutendo? E’ utile discutere se un panino imbottito è buono o cattivo senza chiedersi: “imbottito con cosa?” 

Forse è arrivato il momento di non continuare -spesso per pigrizia o comodità- a dare per scontato il contenuto delle parole che utilizziamo; forse dovremmo rivalutare l’importanza del “cioè”, sia come domanda da porre sia come volontaria disambiguazione. Se -ad esempio- leggo su un manifesto “Cambiamo l’Europa prima che lei cambi noi!”, mi chiedo o chiedo …cioè?.  Stessa domanda se vedo scritto: “Con Giorgia, l’Italia cambia l’Europa” o “Una forza rassicurante al cuore dell’Europa”… cioè?.  Ovviamente questa esigenza di disambiguazione vale anche se un manifesto afferma “Una famiglia, non un bersaglio. L’Europa che vogliamo è inclusiva”: …cioè?.   Dobbiamo chiederci e chiedere sempre: “cioè?” ed essere in grado di risponderci o di farci rispondere nella maniera più concreta possibile; perché “se il sale perde il suo sapore, come si potrà ridarglielo? Non serve più a nulla, non resta che buttarlo via…” e sarebbe davvero un peccato.