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Non fa piacere a nessuno assistere a contestazioni che impediscono di esprimere, motivare e difendere la propria opinione su un determinato tema: come dunque non essere d’accordo con il presidente Mattarella quando -in occasione della sua telefonata alla ministra per la famiglia per esprimerle solidarietà- sottolinea che «voler mettere a tacere chi la pensa diversamente contrasta con le basi della civiltà e con la nostra Costituzione»?.

Occorre tuttavia decodificare con attenzione -nelle diverse situazioni- chi e come “vuole mettere a tacere chi la pensa diversamente”, e se -indubbiamente- non è accettabile che si impedisca ad un ministro di parlare in un convegno, è altrettanto inaccettabile che si utilizzino le forze dell’ordine per impedire a chi vuole manifestare -in modo non violento- il suo dissenso: sarebbe un altro modo di “mettere a tacere chi la pensa diversamente”.

Quando -dopo i fatti di Pisa lo scorso febbraio- il capo dello Stato aveva affermato che «l’autorevolezza delle Forze dell’ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento», il ministro degli Interni aveva detto di condividere questo monito… ed era meno di tre mesi fa (!).

Sarebbe certamente meglio (soprattutto per chi -come me- non ha più l’età in cui l’entusiasmo e una certa dose di incoscienza semplificano la realtà facendo apparire tutto bianco o nero) se le diverse opinioni -“correttamente formulate e pacatamente esposte”- si confrontassero “civilmente” focalizzandosi sui contenuti in un dibattito “pulito” in cui ciascuna delle parti riconosca all’altra piena legittimità, ma -si sa- la vita non è sempre “un pranzo di gala”: i linguaggi sono spesso diversi, gli interessi contrapposti, le semplificazioni eccessive, i poteri impari, la tentazione di prevalere forte… e allora accade che -per produrre un cambiamento- sia necessario andare oltre le righe, violare le regole del salotto, per costringere l’interlocutore più forte a risolvere il problema in forma efficace e non solo accademica.

Come nota l’amica Cristiana Alicata: “Anche Rosa Parks occupò un posto che per la legge di allora non le era consentito di occupare. E fu arrestata per questo. Ha fatto bene? Capisco che esistono due approcci entrambi validi: quello di Martin Luther King e quello di Malcom X. Ma la storia dimostra che sono metodi entrambi validi e che hanno bisogno l’uno dell’altro. I troppo pacifici nessuno li prende sul serio. I pacifici sono presi sul serio quando qualcun altro alza il livello della protesta. È brutto da dire ma è la storia del mondo e del sovvertimento del potere. Il potere non cambia spontaneamente. Mai. In sostanza non esistono riformisti buoni se non ci sono rivoluzionari in giro.”.

Come al solito è una questione di misura: non tutto è giustificabile e le “rivoluzioni” non devono essere per forza cruente -anche perché quando la parola passa alla violenza le idee tramontano e vincere o perdere diventa solo questione di chi è più forte- ma certo non ci si può illudere che basti un garbato scambio di opinioni o una dotta disquisizione per rendere efficaci le proprie convinzioni e proposte: la contestazione non è solo legittima e importante, ma è politicamente “necessaria” alla vita democratica perché non domini un pensiero unico.

Per i giovani, in particolare, contestare è da sempre il modo “fisiologico” con cui definiscono -per differenza- la propria visione delle cose, si appassionano alle proprie convinzioni e si preparano ad una cittadinanza non amorfa. Anche papa Francesco, quando nel suo viaggio in Brasile -nel 2013- incontrò i giovani sudamericani, li sollecitò a non arrendersi, a non essere indifferenti di fronte all’ingiustizia e all’esclusione: “Alzatevi, fate domande, uscite, ‘hagan lio’…! (=‘fate casino’)”. Un appello che è allo stesso tempo una supplica e un richiamo.