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Noi cittadini dell’Unione Europea siamo 450 milioni, abitiamo in 27 stati e parliamo 24 lingue ufficiali diverse: bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, neerlandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, tedesco, svedese e ungherese. Considerando che spesso -pur parlando la stessa lingua- non riusciamo a capirci neppure tra amici, colleghi o tra moglie e marito, è già miracoloso che sia stato possibile costruire -fin qui- un cammino comune concordando regole, cedendo segmenti di sovranità, condividendo obiettivi ed evitando di scannarci cruentemente tra noi, come era costume consolidato nei secoli precedenti.

Fra meno di due settimane -sabato 8 e domenica 9 giugno- saremo chiamati ad eleggere i 720 membri del Parlamento europeo che nei prossimi cinque anni prenderanno -si spera- le decisioni necessarie a continuare e migliorare questo cammino condiviso, ma nulla può essere dato per scontato e l’aria che tira non è affatto buona: è tornata la guerra delle bombe, dei carri armati, degli atti terroristici e della barbarie che si abbatte sui civili. Gli ultimi eventi hanno aperto crepe profonde nella comunità, e le ragioni che dividono sembrano -sempre più spesso- prevalere su quelle che uniscono.

Come ha ben sintetizzato Enrico Letta nella sua introduzione al saggio “Salviamo l’Europa” di M.Bellini: «ci troviamo a un bivio e dobbiamo scegliere quale strada intraprendere. Possiamo scegliere quella che porta all’integrazione definitiva, verso un’Unione europea dove il termine «unione» non sia un semplice auspicio a cui tendere, ma una realtà da vivere quotidianamente in ogni ambito. Oppure possiamo scegliere – o anche solo lasciar crescere la tendenza – verso la disgregazione, cioè quell’idea di nazionalismo che si nutre di veti e di capri espiatori, che guarda indietro e non avanti, che non vuole vedere nei nostri paesi vicini delle regioni di una stessa entità federale. La scelta dell’integrazione contro quella della disgregazione è la chiave per guardare al dibattito attuale, giudicare le scelte che dovremo fare e mobilitare energie e risorse.»

Di fronte a una posta così alta è triste vedere il dibattito elettorale volare così basso, perdersi dietro a dettagli secondari, ripicche e beghe di cortile: sintomo della scarsa consapevolezza di quanto il nostro futuro dipenda in gran parte dal futuro della UE. Mi colpiscono -per contrasto- le intense manifestazioni in Georgia a favore della loro inclusione nella Unione europea (per ora la Georgia è solo “candidato potenziale”) e contro l’approvazione della “legge sugli agenti stranieri”, che la allontana drammaticamente dal processo di integrazione sostenuto dalla maggioranza dei georgiani. Essi manifestano con convinzione -affrontando il rischio della avversa reazione russa- per quello stesso status “europeo” che a noi (come la salute che apprezziamo solo quando viene a mancare) sembra quasi non interessare più di tanto, come se non riuscissimo più a coglierne i vantaggi per evidenziarne solo le criticità.

L’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato le coordinate del mondo in cui viviamo, obbligandoci a ripensare le convinzioni su cui si è sviluppata l’integrazione europea. Alle sfide che si sono susseguite nello scorso decennio -economia e immigrazione- si aggiungono quelle nuove come transizione e digitalizzazione, che definiranno questo secolo. Tutto ciò richiede un cambio di passo per raggiungere quella sovranità condivisa necessaria a difendere i nostri valori e il nostro ruolo nel mondo.

Fra pochi giorni dovremo scegliere i 76 deputati che spettano all’Italia sui 720 totali del nuovo Parlamento europeo: si tratta di un compito importante e delicato da non affidare a qualcuno da cui non compreremmo una macchina usata. Sarà il caso di scegliere persone con la testa sulle spalle e con buone idee nella testa (o preferiremmo vivere in Georgia?)