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Quando pensiamo ai grandi leader è più facile che ci vengano in mente figure del passato: è infatti possibile giudicare una leadership e valutarne la statura solo a bocce ferme, quando sappiamo come è andata a finire e diventano più nitidi gli effetti della sua azione e della sua influenza. Oggi -per limitarci al ventesimo secolo- possiamo ad esempio affermare che persone del calibro di Mahatma Gandhi, Martin L. King, Nelson Mandela sono state capaci -oltre a generare il consenso che ha alimentato la loro leadership- di incidere nella cultura e nella storia del loro paese e di produrre cambiamenti duraturi propugnando con coerenza valori positivi. Questo spiega perché -parlando del presente- è facile imbattersi in osservazioni del tipo “non ci sono più i leader di una volta”…; chissà, magari ci sono ma -se è così- lo potremo affermare solo a giochi fatti.

Per essere un grande leader non basta più essere in grado di indurre consenso e gestire il potere che ne deriva (anche Hitler e Stalin hanno goduto per anni di enorme consenso e grande potere!), bisogna che quel consenso si basi su valori universalmente apprezzati e condivisi; che le azioni politiche siano coerenti con quei valori e -infine- che il consenso si fondi sulla persuasione e non sulla paura.

Nel periodo storico che stiamo vivendo l’affermazione di grandi leadership positive è resa più complicata da due condizioni “ambientali” che in altri periodi erano probabilmente meno consolidate e rigide. La prima è la difficoltà a riferirsi a valori che siano “universalmente condivisi”: è già difficile che questo accada all’interno di ciascuna cultura, ma diventa quasi impossibile a livello internazionale. La seconda è l’irreversibile interdipendenza culturale ed economica che non consente più l’affermazione di leadership autoreferenziali se non al prezzo di blindare informazione e comunicazione in una autarchia culturale (Iran, Nord Corea, Bielorussia…) che diventa poi inevitabilmente anche economica e non sostenibile a lungo. 

Se nel secolo scorso la leadership si è evoluta passando dalla stagione dei leader dominatori a quella dei leader morali, questo secolo sembra piuttosto privilegiare i leader tessitori, quelli cioè capaci di costruire e gestire con cura le relazioni, immaginare equilibri possibili tra interessi diversi e trovare i linguaggi giusti per proporli, avvicinare le culture facendo forza sui tratti condivisi: saper tessere la tela sta diventando più importante delle armi possedute, saper immaginare nuovi equilibri più efficace dell’ossessione di ripristinare quelli vecchi. 

E noi che tipo di leadership vorremmo avere nel nostro paese, nel nostro lavoro, nel nostro condominio? Quale tipo di leadership dobbiamo augurarci per la società in cui vivranno i nostri figli e nipoti? Li immaginiamo attivisti per ottenere diritti che riterranno conculcati, li preferiremmo ritirati in un privato protetto, auguriamo loro di incrociare leadership forti o -per non correre rischi- leader “modesti” che consentano una navigazione meno ambiziosa e più tranquilla? 

La storia non si ripete mai uguale a se stessa e l’esperienza del passato serve solo fino a un certo punto; noi non siamo vissuti nel medesimo orizzonte di attese e possibilità dei nostri genitori e -allo stesso modo- i nostri figli e nipoti non vivranno nell’orizzonte che abbiamo conosciuto noi. Non perdiamoci in sterili giudizi e in insensati paragoni: ognuno ha il suo tempo e le sue opportunità (e il diritto/dovere di giocarsela).