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Non mancano mai le ragioni per odiare coloro che consideriamo nemici e -se non ci bastano- ne costruiamo altre nella nostra mente per illuderci che la nostra rabbia sia ragionevole e giustificabile.

A tutto facciamo l’abitudine e le nostre convinzioni consolidate (che difficilmente sapremmo distinguere dai nostri pregiudizi) possono anche arrivare a farci considerare “ragionevole e storicamente spiegabile” che, in una fresca mattina di ottobre, dei motivatissimi giovani armati attraversino un confine e massacrino, stuprino e uccidano mille e quattrocento persone, portandosene poi via oltre duecentoquaranta come merce di scambio; oppure -con la stessa identica logica- le nostre convinzioni consolidate di segno opposto possono farci considerare “ragionevole e storicamente spiegabile” che -come fallo di reazione- un motivatissimo esercito invada un territorio densamente abitato, ne distrugga le case e le strutture, provochi la morte di ventisettemila persone e ne costringa con la forza un altro milione e mezzo ad ammassarsi in un fazzoletto di terra senza speranza e senza alcuna via d’uscita.

Tutto può apparire “ragionevole e storicamente spiegabile” quando se ne parla seduti in salotto, quando difendere le nostre convinzioni (quelle che quando sono diverse dalle nostre chiamiamo pregiudizi) è sostanzialmente un pacato esercizio intellettuale, quando ci basta un telecomando per passare da un campo profughi insanguinato al palco di Sanremo o ad un elegante campo da tennis. 

Trovare le ragioni storiche e politiche che hanno prodotto gli eventi e le situazioni che ci troviamo ad affrontare è sicuramente importante, ma diventa utile e determinante solo se l’analisi ci spinge a ipotizzare percorsi che prevengano un ulteriore peggioramento, ad immaginare vie d’uscita, a rendere credibile la speranza. L’analisi delle cause del passato dovrebbe spingerci a concentrarci sul futuro, a prevedere le conseguenze delle scelte che facciamo, a disegnare scenari “sostenibili” per quelli che verranno. Senza questo sguardo rivolto al futuro l’analisi finisce spesso per ottenere l’effetto contrario: radicalizza e calcifica le rispettive posizioni come se “muro contro muro” fosse mai stata una strategia vincente.

Di fronte ad una tragedia come il conflitto tra Israeliani e Palestinesi è indispensabile uscire dalla logica del chi vince e chi perde: davvero pensiamo che finisca con un vincitore e un perdente? davvero sapremmo dire in questo momento chi sta vincendo e chi sta perdendo? davvero pensiamo che sia come un campionato di calcio, finito il quale qualcuno festeggia lo scudetto?

Non è questa la chiave per costruire un assetto sostenibile: se entrambe le parti ripetono come un mantra che l’unico futuro possibile è il totale annientamento della parte avversa quale esito potrà mai esserci? Quanti morti serviranno ancora prima di smettere di nutrire la rabbia reciproca e ritornare ad affrontare la realtà? Quante generazioni serviranno per dimenticare questi massacri? 

Molti osservatori rilevano che ormai non c’è più nessun rapporto e nessun dialogo tra palestinesi e israeliani, si è persa ogni connessione, si odiano reciprocamente e basta; la prospettiva di una pace, o quantomeno di una convivenza, sembra ormai ad entrambi una fiaba archiviata. Da una parte e dall’altra sono tornati gli slogan del 1948, leader di Hamas che rimettono in discussione l’esistenza stessa dello stato di Israele e leader israeliani che vogliono chiudere definitivamente la partita prendendo con la forza tutto il territorio “dal fiume al mare” e sigillandolo come una fortezza inespugnabile.

Si sta avviando -per reazione- un processo di radicalizzazione estrema anche nei palestinesi non musulmani, i quali -come rileva Mahdi Abdul Hadi, fondatore della società accademica palestinese per lo studio degli affari internazionali- non sono diventati musulmani, ma hanno assunto l’idea di fondo dell’islam che bisogna reagire anche a costo della vita, diventando un martire; non sono islamizzati, ma sono pronti per essere martiri. Non è una buona notizia.

Dobbiamo sentirci responsabili delle conseguenze di quello che pensiamo, delle parole che usiamo e degli atteggiamenti che assumiamo: non ci è affidato il passato, ci è affidato il futuro.