E così da venerdì scorso l’Atac ha di nuovo una guida. Carlo Tosti, Francesco Carbonetti e Antonio Cassano hanno preso posto ai vertici dell’azienda, dopo le recenti dimissioni dell’ex ad, Maurizio Basile.

Finalmente un po’ di tregua per una delle più importanti aziende municipalizzate di trasporti del Paese, protagonista nei mesi scorsi una lunga sequenza di iatture: dai contrasti tra azionista (il Campidoglio) e management sulla politica industriale, allo scandalo delle assunzioni selvagge, senza dimenticare il “piccolo” problema rappresentato da un deficit di bilancio a dir poco inquietante.

E ora? Tutti contenti? Così sembrerebbe, stando ai grandi sorrisi che hanno dispensato i nuovi manager durante la loro prima uscita pubblica nel bar dell’azienda subito dopo la nomina.

“Non vorrei fare la Cassandra – è stato uno dei commenti disincantati ascoltati subito dopo la diffusione della buona notizia- ma cominciò così anche la fine di Alitalia. Seri professionisti e abili manager che lasciavano la poltrona ad altri seri professionisti e altrettanto abili manager, e ancora seri professionisti che se ne andavano per far posto ad altri”.

La situazione. Basile e Legnani, rispettivamente ex ad e presidente dell’azienda, si sono dimessi per l’impossibilità di realizzare un severo piano di risanamento. Sono quindi stati sostituiti da Carlo Tosti e Francesco Carbonetti, di sicuro altrettanto capaci, ma gravati da un vincolo in più: quello di essere legati ai principali creditori dell’Atac. Mentre il nuovo direttore generale, Antonio Cassano, non è neppure una vera novità, perché già aveva ricoperto lo stesso incarico all’interno dell’azienda da giugno 2005 a gennaio 2010.

Non proprio una svolta risolutiva, insomma. Eppure i problemi che penalizzano l’Atac sono noti, ma per affrontarli e tentare di risolverli occorrerebbe anzitutto un deciso affrancamento dalla politica, intesa nella sua accezione meno nobile. Di spartizione di incarichi, clientelismo, sponde e giochi di interessi, attività di lobbying.

Manca inoltre una visione di sistema, capace di superare l’ambito metropolitano e abbracciare la provincia di Roma e l’intera Regione, per creare una serie di sinergie e integrazioni con gli altri sistemi di trasporto pubblico.

I manager dovrebbero poter lavorare con le mani libere. Come? Anzitutto bisognerebbe ricapitalizzare l’azienda, eventualmente anche ri-conferendole gli immobili. Si dovrebbe risolvere il problema della liquidità con le banche; lavorare sul contenimento dei costi di produzione (processi industriali arcaici ed inefficienti, esternalizzazioni costose da ripensare profondamente) e sul miglioramento dei ricavi (la lotta all’evasione, indispensabile, non sarà sufficiente). Sarebbe opportuno inoltre rivedere le relazioni industriali e sindacali e rivoluzionare la governance aziendale.

Percorrendo questa strada, si potrebbe allo stesso tempo preservare  l’occupazione dei lavoratori e rispondere positivamente alle esigenze dei cittadini.

La politica dovrebbe a questo punto fare un deciso passo indietro, per lasciare finalmente spazio, dopo tanto sciupio di risorse, a una gestione manageriale dell’azienda. Tutto a beneficio non solo dei viaggiatori, che potrebbero così contare su un sistema di trasporto pubblico più funzionale e trasparente, ma in primo luogo degli stessi dipendenti. Se l’unica preoccupazione restasse infatti quella di garantire posti di lavoro, l’Atac cesserebbe di essere un’azienda di servizi, per mutarsi in un ente di assistenza. E i dipendenti avrebbero pieno diritto di fregiarsi della qualifica di impiegati dell’LSU, lavoro socialmente utile.

Siamo sicuri che sia la scelta più conveniente?