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Sessantuno anni fa, l’11 aprile 1963, neanche due mesi prima della sua morte, Giovanni XXIII firmava la sua “Pacem in TerrisQUI, enciclica nella quale tratteggiava i principi e le modalità che rendessero possibile quella pace che definiva l’”anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi”.

Il contesto storico era quello della guerra fredda nella sua fase più acuta: sei mesi prima, nell’ottobre del ‘62, c’era stata la “crisi di Cuba” per l’installazione dei missili sovietici che aveva portato il mondo a un passo da un conflitto nucleare e l’anno precedente la costruzione del muro di Berlino sembrava aver creato le premesse per una replica della seconda guerra mondiale. Era cambiato lo stesso concetto di guerra: qualsiasi conflitto diventa troppo pericoloso se comporta l’impiego di armi atomiche e pertanto la guerra armata non era più accettabile come mezzo per ottenere giustizia; emergevano così altri tipi di guerra: quella alimentare, quella monetaria, quella dei migranti…

Anche il contesto economico e sociale stava velocemente mutando e la crescita dei Paesi industrializzati sembrava illimitata. La diffusione dei beni strumentali e di consumo faceva sperare in un futuro di abbondanza, tuttavia le prime crepe di questo idilliaco scenario non tardarono ad apparire: i paesi africani, di recente indipendenza, diventavano frequentemente palcoscenico di conflitti spesso per conto terzi e l’India faticava a trovare la chiave agraria per evitare le grandi carestie. Cominciavano i primi flussi migratori e la Cina sembrava chiudersi in un enigmatico isolamento culturale.

In tale contesto, Giovanni XXIII dà un contributo magistrale all’analisi del mondo di allora, dei suoi conflitti, delle sue speranze e lo fa caratterizzando il suo messaggio in modo personale: nell’enciclica non polemizza, non condanna e, quando parla di guerra, non pretende di costruire una casistica per determinare se e quando essa può essere giustificata; dedica relativamente poca attenzione a che cosa sia la pace e a quali frutti produca. Insiste soprattutto sulle condizioni che la rendono possibile: un preciso equilibrio nella società, i cui quattro principi fondamentali sono verità, giustizia, amore e libertà. La pace non è soltanto assenza di guerra, ma è un insieme di relazioni positive tra gli individui e tra le comunità.

Malgrado siano trascorsi più di sessant’anni, alcuni passaggi risultano ancora oggi estremamente attuali: “…il progresso sociale, l’ordine, la sicurezza, e la pace all’interno di ciascuna comunità politica è in rapporto vitale con il progresso sociale, l’ordine, la sicurezza, la pace di tutte le altre comunità politiche. Nessuna comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa; giacché il grado della sua prosperità e del suo sviluppo sono pure il riflesso ed una componente del grado di prosperità e dello sviluppo di tutte le altre comunità politiche” (n.68). Non sembra un accorato avvertimento profetico rivolto alle teorie e alle pratiche -oggi largamente vincenti- dei diversi sovranismi che seminano divisioni, arroccamenti e conflitti in Europa e nel mondo?

Pensando agli eventi di questi anni, alle posture intransigenti esibite come pregi e spacciate per lungimiranza politica, in quella “Pacem in Terris” auspicata da Giovanni XXIII riconosciamo ancora l’”anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi” o l’abbiamo ormai declassata al rango di ingenuo sogno di chi ancora crede alle favole o spera nei miracoli? 

Crediamo ancora che “nessuna comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa” o abbiamo ormai sposato -anche come UE- la strada della blindatura del confine e della cultura, convinti che le proprie orgogliose radici si tutelino chiudendo le porte e invecchiando in splendida solitudine nelle sovrane fortezze?

Forse Giovanni XXIII era troppo ottimista e al titolo della sua enciclica avrebbe dovuto aggiungere un punto interrogativo. Pacem in Terris?