Sala della Protomoteca stracolma ieri in Campidoglio per la presentazione del libro Terre senza promesse. Storie di rifugiati in Italia, a cura del Centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati che ogni anno garantisce la propria assistenza nel nostro Paese a circa 26.000 persone in fuga da guerre e persecuzioni. 

Ma al di là delle definizioni da manuale, chi sono davvero i rifugiati che vivono ogni giorno accanto a noi, nelle nostre città? “Persone comuni che vengono a trovarsi in circostanze eccezionali”, è la risposta semplice e inquietante che dà il Centro Astalli nella prefazione al libro. “Persone che poi diventano, loro malgrado, protagoniste di storie che riusciamo a stento a immaginare”.

È proprio per aiutarci in questo non facile cammino di comprensione e incontro che Terra senza promesse è stato realizzato affidando la parola direttamente a loro, a “quelli che ce l’hanno fatta”, per parafrasare la commovente dedica in epigrafe al testo. Un vero racconto polifonico, in cui dieci rifugiati narrano in prima persona le esperienze vissute. Vicende  spesso contraddistinte da cifre comuni: la vita spensierata nel proprio paese fino all’impatto con la repressione, con la violenza, la dolorosa presa di consapevolezza, il distacco dai propri cari. L’esperienza durissima del viaggio attraverso il mare, un Mediterraneo tutt’altro che luminoso e accogliente, un mare dove in tanti hanno perso – e continuano a perdere – la vita attratti da un miraggio, da un sogno. Quello della libertà.

“Somalia, Eritrea, Etiopia: sono questi i Paesi da cui proviene la maggior parte degli immigrati che chiedono asilo in Italia”, spiegano gli operatori del Centro Astalli. E una volta arrivati qui? “Non hanno ancora vinto del tutto”, perché lungo è il cammino per guadagnare “una stabilità paragonabile a quella che hanno perso con la fuga”.

Quelle che si leggono nel libro sono quindi “storie che non finiscono con un lieto fine”, come ha spiegato padre Federico Lombardi, direttore di Radio Vaticana, durante il suo intervento. Sono piuttosto dei racconti con finale aperto, cui “manca il seguito, e quale sarà questo seguito dipende da noi, da quello che sapremo fare e da quanto sapremo costruire insieme una terra con delle promesse”.

“I rifugiati e i richiedenti asilo non sono statistiche, né  numeri”, ha aggiunto l’arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti. Impossibile non condividere questa affermazione, anche solo sfogliando le pagine di questo piccolo libro.

Dalla storia di Abel, che da un’Eritrea ancora carica di ricordi dell’età coloniale (con i vecchietti del posto che “chiacchieravano, si prendevano in giro, dicevano un sacco di parolacce. In italiano, naturalmente”) arriva a Roma, quartiere San Basilio, dove scopre un’Italia spesso indifferente che “non ha voglia di parlare  di problemi, men che meno di politica”. A quella di Alì, un vivace diciassettenne in fuga dalla Somalia con il fratello minore, senza dimenticare il sublime “Piccolo vangelo africano”, la storia di una madre eritrea che attraversa il mare su un gommone, all’ottavo mese di gravidanza e in compagnia del marito falegname.

Pregio in più del libro è l’aver “affidato” ciascun racconto all’introduzione e al commento di un illustre esponente della cultura italiana. Personaggi del calibro di Andrea Camilleri, Gad Lerner, Ascanio Celestini, Enzo Bianchi, Erri De Luca, solo per citarne alcuni. Così l’inventore di Montalbano ci accompagna nel cuore della storia di Alì, “nove mirabili pagine, asciutte”, raccontate “senza mai indulgere alla sottolineatura drammatica ma semmai con un filo di sottilissima ironia”, mentre Enzo Bianchi ci ricorda il valore della speranza nella terribile storia, lunga sedici anni, di un giovane nato ad Addis Abeba, fino a Melania Mazzucco, che dipinge con sapienza profetica la patria come “non solo il Paese del padre, ma soprattutto quello dei figli”.

Padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, ha concluso la mattinata esprimendo un auspicio: “Spero che questo libro lasci nel lettore quella giusta inquietudine che aiuti a dare risposte dignitose alle esigenze di chi lascia il proprio Paese costretto dalle guerre e dalle violazioni dei diritti fondamentali”. Un’inquietudine che smuova soprattutto noi italiani dalle nostre rapide certezze, perché sia sempre più possibile costruire insieme una società capace di “una relazione e un confronto aperto e positivo” con l’altro.