Esattamente una settimana fa, lunedì 13 ottobre, veniva firmato a Sharm el-Sheikh l’accordo nel quale si afferma che una pace duratura “sarà una pace in cui palestinesi e israeliani potranno prosperare, vedendo garantiti i propri diritti umani, la propria sicurezza e la propria dignità”. Eccellenti premesse ed obiettivi! Tutti ovviamente ci auguriamo che l’accordo sia durevole, anche se (confessiamolo) facciamo fatica a crederci.

Un primo indice di fragilità è già nel fatto che i soggetti interessati abbiano deciso di non sedersi allo stesso tavolo delegando la firma a dei “procuratori” (Trump, Al-Sisi, Erdogan e l’emiro del Qatar, Al Thani): è credibile un accordo che proclama la determinazione delle parti “a smantellare tutte le forme di estremismo e radicalizzazione perché una società non può prosperare quando la violenza e il razzismo vengono normalizzati, o quando ideologie radicali minacciano la vita civile” se quelle stesse parti non accettano neppure di guardarsi in faccia mentre lo firmano?

Ma non c’è solo questo dietro la fatica a credere davvero che l’accordo sia durevole: ci sono la profondità della diffidenza reciproca, la radicalizzazione delle posizioni estreme da entrambe le parti, l’indeterminatezza dei passi successivi, il sangue che ancora non si è asciugato.

Non è la prima volta nella storia che tragedie di questo tipo si verificano e -ciò nonostante- conflittualità identitarie apparentemente insanabili hanno a volte trovato, se pur con estrema fatica e aspri contrasti, un modo per uscirne, quando -all’interno delle parti in gioco- qualcuno si è convinto che la spirale di vendette reciproche non si sarebbe mai esaurita spontaneamente e ha avuto il coraggio di proporre una cesura netta proponendo di mettere un punto, voltare pagina e ripartire da capo.

Una di queste situazioni -fatte salve tutte le differenze di epoca e di contesto- si era creata in Italia alla fine della guerra. Il periodo a cavallo della liberazione fu convulso e sanguinoso, tra tribunali partigiani approssimativi, vendette ed esecuzioni sommarie: gli istinti di rivalsa si mischiavano alla delinquenza comune. Il numero di uccisioni causate dall’insurrezione dopo la liberazione è stimato in circa quindicimila morti. Gli episodi di violenza politica continuarono anche tra il 1945 e 1946 e la situazione minacciava di non trovare via d’uscita neppure col moltiplicarsi dei processi, delle condanne e degli arresti delle persone coinvolte.

A capire che la spirale non si sarebbe fermata spontaneamente e a trovare il coraggio di proporre un provvedimento di cesura che spezzasse questa dinamica, furono il ministro della Giustizia (Togliatti) e il Presidente del Consiglio (De Gasperi).

Il ministro presentò un provvedimento di amnistia come giustificato dalla necessità di un “rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale” e il governo lo approvò. Il provvedimento divenne operativo il 23 giugno 1946, appena tre settimane dopo il referendum del 2 giugno, e quell’amnistia risultò essere il cardine di un più lungo processo di transizione politica che -gradualmente- riuscì a far voltare pagina e a ripartire lasciandosi alle spalle le molte ferite sofferte da tutti.

So bene che il contesto e il calibro della questione israelo-palestinese sono diversi e difficilmente paragonabili alla vicenda italiana del dopoguerra, ma c’è un elemento che diverso non è: l’impossibilità di una soluzione che pretenda di ricomporre -da entrambe le parti- il puzzle infinito degli accordi e delle violazioni precedenti, dei diritti lesi e dei tradimenti silenti, dei lutti inferti e subiti. Solo una proposta che -come una sorta di “amnistia”- rinunci a quadrare tutti i conti del passato e riesca a voltare pagina può creare lo spazio necessario a scrivere un futuro comune; diversamente ciascuna delle parti continuerà a perseguire l’eliminazione definitiva dell’avversario che è poi il sogno (neppure più celato) di entrambi i contendenti.

Per fortuna gli orizzonti e la creatività dei popoli non coincidono con gli orizzonti e la creatività dei loro capi: non tutti gli israeliani ragionano come Bibi Netanyahu e non tutti i palestinesi ragionano come (ragionava) Yahya Sinwar, e per fortuna nessun capo è eterno. La speranza è che diventi possibile voltare pagina, scrivere una storia diversa e ritrovarsi -magari ad Oslo- a firmare nuovi accordi guardandosi in faccia e negli occhi.