Circola da qualche tempo un pericoloso virus dal quale è difficile difendersi. Si manifesta in modo apparentemente innocuo e i sintomi sono quasi sempre letti come una postura virtuosa: quella che assumiamo quando -di fronte ad un evento grave e conflittuale- scegliamo da che parte stare (ovviamente quella che sembra giusta a noi) per poi difendere coerentemente e rigidamente la nostra posizione.
In un recente articolo su Avvenire (QUI), Ruben Razzante così sintetizza i sintomi di questa patologia: “La dinamica del confronto segue un copione ormai familiare: la corsa a estremizzare, semplificare, schierarsi. [Ci si getta] nel pozzo senza fondo della polarizzazione, in quella zona grigia che grigia più non è, dove ogni sfumatura viene cancellata in favore di un’opposizione binaria, aggressiva, semplificatrice. In questa dinamica, i contenuti reali del dibattito si perdono quasi subito. Ciò che resta è un duello identitario, una specie di rito collettivo in cui ognuno deve scegliere se stare “con” o “contro”, senza possibilità intermedie, senza curiosità, senza ascolto.”
Nell’arena digitale emerge con chiarezza la difficoltà sempre più evidente a mantenere uno spazio di discussione in cui il dissenso non si trasformi automaticamente in scontro, in cui la complessità non venga subito ridotta a slogan, e in cui la realtà non debba per forza essere piegata alle esigenze di una tesi. Purtroppo però il virus non è attivo solo nell’arena digitale, le sue perniciose conseguenze finiscono per contagiare le stesse relazioni personali, addirittura quelle amicali e collaudate dal tempo. La radicalizzazione delle posizioni infetta anche le relazioni tra le persone, rendendo impossibile discutere senza trascendere, a meno di evitare del tutto ogni discussione di merito limitandosi a restare in quella terra di nessuno in cui non esistono opinioni, come si fa in ascensore (ha ripreso a far caldo oggi, non ci sono più le mezze stagioni, dove andremo a finire…). Ma è evidentemente una sconfitta, un drammatico impoverimento, è rinunciare a trovare un canale comunicativo che riesca a tenere distinti il piano delle opinioni personali e quello delle relazioni tra le persone.
Ma non è il caso di arrendersi: vogliamo poter ragionare dei contenuti senza mettere a rischio la relazione, vogliamo poter argomentare del merito senza scivolare nel “tutto o niente”, vogliamo poter discutere senza che il giudizio sulle opinioni diventi giudizio sulle persone. Vogliamo il rispetto del dubbio come metodo: il dubbio non è una minaccia, non è una fragilità: è ciò che ci impedisce di pietrificarci, che mantiene la nostra ricerca viva e aperta. Non si tratta di demolire ogni cosa, ma di accettare che le certezze non sono idoli intoccabili, bensì soste provvisorie in un cammino che non si esaurisce mai del tutto.
Ammettere -almeno come esercizio retorico!- che le cose potrebbero non stare sempre esattamente come noi siamo convinti che stiano è una salutare ginnastica della mente. Il dubbio non è una debolezza del pensiero, è la sua forza.
Tommaso d’Aquino, nella sua Summa Theologiae, utilizza il metodo della “disputa scolastica”, costruendo ogni questione come un dialogo: prima vengono esposte le obiezioni, cioè le ragioni contrarie, poi un principio autorevole a sostegno della tesi opposta, e infine il tentativo di costruire una sintesi capace di integrare il vero che si trova anche nelle posizioni avverse. Questa struttura non è soltanto una tecnica logica: rivela la capacità di entrare nelle ragioni dell’altro, di comprenderne la forza e di prenderle sul serio. Una vera e propria empatia intellettuale che non riduce l’opinione opposta a una caricatura, ma la espone nella sua forma migliore, per poi mostrarne i limiti e aprire a una visione più ampia. Discutere non deve ridursi ad un semplice scontro di tesi, ma deve evolvere in un cammino di ricerca che passa attraverso l’ascolto, il riconoscimento e il dialogo.
In sintonia con il tema, nel film “Come eravamo” [1973] Robert Redford chiede a Barbra Streisand: “Sei davvero così sicura di tutto ciò di cui sei sicura?”.