“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”: conosciamo tutti a memoria questo articolo 32 della Costituzione, facciamo però fatica a continuare a crederci quando -al telefono con il CUP per prenotare una visita o un esame diagnostico- ci sentiamo rispondere che “ci sarebbe una possibilità a primavera dell’anno prossimo…” o “mi dispiace, ma è tutto pieno per i prossimi 12 mesi e non possiamo prenotare oltre…”; o quando trascorrono mesi attendendo che l’ospedale (che ci ha inserito in lista di attesa dopo la preospedalizzazione) ci comunichi la data dell’intervento chirurgico di cui abbiamo bisogno.
Sappiamo bene che non basta affermare un diritto costituzionale perché si realizzi concretamente: la sua effettiva fruibilità dipende dalle risorse economiche che lo sostengono, dalla priorità che ad esso viene riservata dal governo quando -in sede di legge finanziaria- le risorse disponibili vengono allocate nei diversi capitoli di spesa, e dagli interessi che si intrecciano nella sua attuazione.
E’ di poche settimane fa il nuovo libro (“Una sanità uguale per tutti”) di Rosy Bindi, che della sanità è stata ministro dal 1996 al 2000. A venticinque anni dalla riforma che porta il suo nome, l’autrice sgombra il campo dalle ricostruzioni di parte e dalle polemiche inutili e avanza proposte chiare volte a promuovere la rinascita di un servizio basato su equità, solidarietà e trasparenza. Se -come si afferma da più parti- la salute degli italiani oggi è fra le migliori del mondo, il motivo preciso -secondo Rosy Bindi- si chiama “Servizio sanitario nazionale”. Ma oggi questo bene di tutti è a rischio, un rischio innescato dalla cronica mancanza di risorse, da una progressiva privatizzazione e dall’autonomia differenziata delle regioni.
“Si sta rischiando di sostituire un diritto con una possibilità” -ha affermato Rosy Bindi in una recente intervista- “Se la sanità è un diritto deve essere uguale per tutti: non si possono fare discriminazioni in base alle possibilità economiche delle persone, a dove sono nate, a che lavoro fanno, al colore della pelle che hanno, alla loro religione”. Il nostro sistema resta un presidio di civiltà fondamentale, che possiamo ancora permetterci e sul quale vale la pena investire, correggendo le disfunzioni che conosciamo e fermando i tentativi in atto di puntare su un modello assicurativo più iniquo e costoso.
Nel suo libro l’autrice è ancora più esplicita nell’evidenziare gli elementi che stanno minando la fruibilità del diritto: “Se la salute è un diritto fondamentale dell’individuo e un interesse della comunità può essere garantito soltanto da una sanità concepita come bene comune non come un affare privato. Spetta alla politica esercitare un governo autorevole che corregga le distorsioni di un rapporto sempre asimmetrico tra chi domanda salute, soprattutto se è fragile e povero, e chi è deputato ad assicurare la cura.”. (p.143)
Un accento particolare merita la seconda affermazione dell’art.32 della Costituzione, laddove si sottolinea che la tutela della salute è “interesse della collettività”: non solo nel senso che la collettività si deve interessare della salute, ma anche -in senso stretto- dell’interesse economico della collettività stessa. Una parte rilevante dei costi sanitari sono infatti assorbiti da patologie che potrebbero essere ampiamente ridotte con una adeguata prevenzione; educazione alla salute, alla corretta alimentazione, screening e check-up sono investimenti, non costi a perdere.
Si tratta di decidere se la salute è un bene negoziabile e se curarsi quando si sta male è un esigenza comprimibile. Il contrario concettuale di “diritto” è “privilegio”: il primo è per sua natura universale, il secondo minoritario. La scelta dipende dal modello di società che preferiamo (suggerirei di decidere mentre stiamo male).