Il sociologo Tzvetan Todorov sosteneva che «uno degli insegnamenti del nostro recente passato è che non esiste rottura tra estremi e centro, bensì una serie di impercettibili transizioni. Se nel 1933 Hitler avesse detto ai tedeschi che dieci anni dopo avrebbe sterminato tutti gli ebrei d’Europa, non avrebbe mai vinto le elezioni, come invece accadde. Ogni concessione accettata da una popolazione assolutamente non estremista è di per sé insignificante: prese insieme portano all’orrore». Il rischio è di abituarci progressivamente alla lesione dell’idea di democrazia: piccole limature che, passo dopo passo, ci portano a considerare rinunciabili porzioni crescenti della nostra libertà e negoziabili valori e comportamenti che consideravamo intangibili.
Ovviamente non ho il timore di ritrovarmi domani in uno stato di polizia, con la censura dei giornali e il controllo degli spostamenti… quello che mi inquieta è piuttosto l’assenza di reazioni di fronte allo scivolamento istituzionale, all’incoerenza di alcune scelte politiche, al doppiopesismo dei giudizi, al pregiudizio considerato normalità: è su questi crinali che si collocano le “impercettibili transizioni” di cui parlava Todorov.
Osservare il presidente Trump far coincidere la forza con la ragione, fare del nazionalismo una religione e della religione un’arma identitaria; criminalizzare gli immigrati e mandare ronde di poliziotti federali (ICE) a seminare paura nelle periferie e non cogliere reazioni istituzionali -anche a livello internazionale- ferme ed energiche, limitandosi a declassare l’uragano a “folklore del personaggio”, è una debolezza, una crepa -apparentemente ininfluente- nei valori e negli atteggiamenti che consideriamo corretti e condivisi.
Le crepe sono a volte più perniciose dei crolli: una crepa tendiamo a trascurarla, un crollo non potremmo. Dovremmo forse sentire di più la responsabilità della “manutenzione” delle idee, reagire alla tentazione della passività, stabilire -almeno per noi stessi- il limite tra ciò che possiamo trascurare è ciò che non possiamo accettare. Non sempre ci sarà possibile reagire in modo efficace, non sempre ci sarà possibile coinvolgere altri nella nostra reazione e dare ad essa un respiro più visibile e collettivo, tuttavia essere consapevoli che una “linea gialla” è stata superata ci aiuta a non accettare come normale il cedimento successivo e ci ricorda che un confine attende di essere ripristinato.
Questa attenzione a sorvegliare le nostre convinzioni per evitare che vengano erose dagli eventi o relegate ad una sterile lamentazione (…signora mia, dove andremo a finire!) non comporta affatto un arroccamento nostalgico e una chiusura alla ricerca di diversi equilibri: il mondo cambia e nuove situazioni esigono spesso nuove soluzioni, ma -proprio per questo- è necessario tenere a mente la “linea gialla” che non deve essere superata. Non vorremmo ritrovarci a ritenere tutto sommato ragionevole “Alligator Alcatraz”, il centro di detenzione per immigrati creato in Florida, per garantire una maggiore sicurezza ai cittadini!
La sfida che abbiamo davanti è riuscire a mantenere un equilibrio tra la fermezza nel difendere valori e convinzioni che non riteniamo negoziabili e la disponibilità a modificare forme e strutture di pensiero per renderle capaci di rispondere alle esigenze che questa stagione della storia ci propone.
Robert Musil, nel suo romanzo “L’uomo senza qualità”, dà vita ad un uomo lucido e disincantato, incapace di credere definitivamente in qualcosa ma altrettanto incapace di rinunciare a cercare. Musil lo chiama “senza qualità” non perché sia vuoto, ma perché rifiuta di essere definito. Egli è, come dice lo scrittore, «una persona per la quale nulla è definitivo, tutto può essere altrimenti». Il suo pensiero vive nel “senso della possibilità”, l’unico antidoto al fanatismo, l’unico spazio dove la libertà resiste. Non lasciamo inaridire questo spazio.
