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Lo scorso anno Boris Johnson ha messo a punto un piano davvero creativo per risolvere l’incomodo creato da migliaia di richiedenti asilo arrivati nel Regno Unito illegalmente: non volendo tenerli e non potendo riportarli tutti a casa, ha pensato di parcheggiarli in Ruanda sottoscrivendo un accordo con le autorità dello Stato africano,  (che riceverà 120 milioni di sterline per costruire sul suo territorio strutture di “ospitalità”) con l’obiettivo dichiarato di scoraggiare l’afflusso di “clandestini” nel Regno Unito. Rishi Sunak, attuale primo ministro, ha condiviso il “Piano Ruanda” ereditato da Johnson, anche se numerose contestazioni giuridiche e polemiche politiche non hanno finora ancora consentito la sua attivazione e nessun migrante è stato finora deportato a Kigali. L’Onu si è detta fermamente contraria al piano britannico di gestione del diritto di asilo, garantito dalla convenzione di Ginevra, e la Commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, ha precisato che “l’esternalizzazione delle procedure di asilo -oltre a non essere una politica migratoria umana e dignitosa- solleva interrogativi fondamentali su asilo e protezione”.

Il nostro presidente del consiglio Giorgia Meloni, in visita a Londra la scorsa settimana, ha rilevato piena convergenza con la linea del governo britannico sui migranti, inclusa l’idea di mandare in Ruanda i richiedenti asilo: “Io non la vedo come una deportazione –ha sostenuto– ma come un accordo tra stati liberi nei quali viene garantita la sicurezza delle persone. Parlare di deportazione, o lasciare intendere che il Ruanda sarebbe un Paese che non rispetta i diritti e sarebbe una nazione inadeguata o indegna, credo che questo sì sia un modo di razzista di leggere le cose“. 

Una affermazione che -spostando l’attenzione sulla scelta del paese africano- sembra dimenticare che le obiezioni dell’ONU e della UE non riguardano il “dove”, ma il fatto che l’esternalizzazione delle procedure di asilo (varrebbe anche per gli hot-spot in Libia più volte proposti dalla stessa Meloni) mette a rischio la possibilità stessa di ottenere la protezione internazionale e non garantisce la possibilità di una vita “non reclusa” durante i tempi di attesa (sempre più lunghi) dell’esito della richiesta. L’esternalizzazione della procedura -tanto più se in posti lontanissimi dal paese al quale viene sollecitata- finirebbe così per diventare una reclusione senza limiti in attesa di un verdetto positivo o una trappola senza via d’uscita in caso di rifiuto.

Giorgia Meloni -parlando a Londra con i giornalisti- ha sollecitato tutti ad essere concreti: “Cerchiamo di affrontare le questioni con pragmatismo e non con approcci ideologici, nel caso di default della Tunisia l’onda migratoria avrebbe una spinta fortissima, allora che si fa?”. Il presidente del consiglio ha perfettamente ragione a chiedere un approccio non ideologico, ma questo non si fa rincorrendo chimere fantasiose come il “Piano Ruanda” del governo britannico, ma definendo politiche migratorie serie che non confondano (spesso strumentalmente!) la sostanziale diversità tra l’accoglienza dei migranti forzati e la programmazione della migrazione regolare sulla base delle crescenti necessità del nostro paese, favorendo una effettiva integrazione sociale dei migranti e soprattutto -come non si stanca di ricordare il presidente della repubblica- concordando i criteri e le modalità di  queste politiche in sede europea, visto che nessun paese è in grado di affrontare questi problemi da solo.

Il Ruanda è un piccolo e bellissimo paese africano e non è una buona idea farlo diventare un grande e bruttissimo campo di profughi senza futuro.