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Per quanto possa oggi sembrare strano, ci fu un periodo (gli anni ’60-’70) in cui a tutti sembrava ovvio che nel futuro saremmo stati meglio, che sarebbero aumentate le opportunità di conoscere, viaggiare, studiare, che il livello culturale medio sarebbe cresciuto e con esso anche la ricchezza e il benessere. Questa diffusa convinzione era figlia del periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale durante il quale -come dopo ogni compressione economica e sociale- si era finalmente tornati a respirare, a lavorare e soprattutto a credere di poter costruire per tutti una condizione migliore… praticamente l’esatto opposto della percezione che abbiamo oggi del futuro!

Siamo immersi nella diffusa convinzione che la situazione peggiorerà e -come registra il rapporto Censis presentato venerdì scorso- “l’80,1% (l’84,1% tra i giovani) è convinto che l’Italia sia irrimediabilmente in declino”. Prevale un sentimento di paura e rassegnazione su tutto: il clima, la crisi economica, la violenza, gli immigrati, il debito pubblico, le guerre e -continua il rapporto- “anche il welfare del futuro instilla nell’immaginario collettivo grandi preoccupazioni: il 73,8% degli italiani ha paura che negli anni a venire non ci sarà un numero sufficiente di lavoratori per pagare le pensioni e il 69,2% pensa che non tutti potranno curarsi, perché la sanità pubblica non riuscirà a garantire prestazioni adeguate”.

Non si tratta certo di paure e preoccupazioni infondate, ma il disagio “percepito” dipende in buona parte anche dal termine di paragone che utilizziamo e dal livello di attesa che coltiviamo: negli anni del dopoguerra il livello economico, pensionistico e sanitario non era migliore di quello di cui, malgrado tutto, godiamo oggi; ma -al confronto con il periodo bellico precedente- veniva percepito come accettabile e comunque considerato il passo iniziale di un atteso e creduto miglioramento. La sostanziale differenza tra le due opposte percezioni sta esattamente nel tipo di futuro che ci aspettiamo, cioè nella “profezia” che facciamo su noi stessi.

I sociologi chiamano “profezia che si autoavvera” [self fulfilled prophecy] una previsione che si realizza (o almeno aumenta notevolmente le probabilità di realizzarsi) per il fatto di essere stata espressa e creduta possibile all’interno di una comunità sociale. Non si tratta ovviamente di magìa o superstizione, ma solo della constatazione che la predizione di un evento, convintamente e socialmente ritenuto possibile, favorisce la sua reale attuazione. Tuttavia se questa self fulfilled prophecy può attivarsi in senso positivo, la sua dinamica può attivarsi anche in senso negativo: se la convinzione diffusa è una previsione negativa, vengono penalizzate le motivazioni che spingono alla ricerca di una soluzione possibile e diventa notevolmente più probabile che si verifichi l’esito temuto. Se una comunità è convinta che si può uscire con successo da una situazione difficile è (più) possibile che questo accada, se è convinta del contrario è (ancor più) probabile che non accada.

In estrema sintesi, accodarsi passivamente al pessimismo di chi ipotizza lo scenario peggiore non è sempre la scelta più saggia per scongiurarlo: se -pur con tutti i se e tutti i ma che vogliamo- ci convinciamo che sia possibile farcela, questa possibilità esiste; se pensiamo invece che (ormai) non c’è più niente da fare, allora non c’è partita.

Le “profezie” di cui ci convinciamo non sono mai solo pronostici neutri che non incidono sugli eventi successivi: o sono profezie motivanti o sono profezie pericolose. Io preferisco le prime.