«Le tasse sono bellissime, un modo civilissimo di contribuire a servizi indispensabili come la salute e la scuola», affermò nel 2007 l’allora ministro dell’economia Padoa Schioppa, ricevendo critiche feroci sia dai contribuenti che si ritenevano vessati da imposte troppo elevate rispetto ai servizi pubblici resi dallo stato, sia da chi arrivò persino a definire l’affermazione “rivelatrice di una mentalità che vede nell’imposizione fiscale una misura punitiva del profitto”.  La frase del ministro suonò “strana”, poiché -anche se le tasse si pagano in tutti gli stati del mondo (a meno di essere residenti negli Emirati Arabi o alle Bahamas)- di solito il contribuente non è affatto contento di doverlo fare e vorrebbe piuttosto pagarne il meno possibile. Quando mai si è sentito che qualcuno -soprattutto tra quanti producono altissimi profitti- chiedesse di pagare più tasse? Perché mai dovrebbe chiederlo?

Eppure è successo (qui sul pianeta Terra!) proprio la scorsa settimana.

Con l’iniziativa «Proud to pay more» (Orgogliosi di pagare di più), oltre 250 miliardari e milionari provenienti da 17 paesi diversi, chiedono di introdurre o alzare le tasse sulla loro ricchezza estrema (QUI).   Lo fanno con una lettera aperta rivolta ai leader globali riuniti a Davos per il World Economic Forum, il meeting annuale dei più rilevanti soggetti dell’economia, della finanza e della politica al quale partecipano quest’anno oltre 60 capi di Stato e di governo e 2.800 leader economici.

Va subito chiarito che la richiesta -da parte di soggetti ricchissimi- di tassare di più le loro ricchezze private estreme non nasce da un improvviso impeto di filantropia, né dal desiderio di una maggiore equità nella ridistribuzione dei profitti. I firmatari  la motivano -pragmaticamente- con la paura che disuguaglianze troppo accentuate (come quelle evidenziate dal rapporto Oxfam presentato a Davos) mettano a rischio la stabilità economica, sociale ed ecologica e dunque -in ultima analisi- possano far saltare l’intero sistema. Nella lettera aperta i firmatari affermano: “Siamo i soggetti che beneficiano maggiormente dello status quo. Ma la disuguaglianza ha raggiunto un punto di svolta e il suo costo per la nostra stabilità economica, sociale ed ecologica è grave e cresce di giorno in giorno. In breve, dobbiamo agire subito”. I proponenti ritengono che questo prelievo fiscale “trasformerà la loro ricchezza privata estrema e improduttiva in un investimento per il comune futuro democratico” e sono consapevoli che “la soluzione a questo problema non può essere trovata nelle donazioni una tantum o nella filantropia; l’azione individuale non può correggere l’attuale colossale squilibrio. Abbiamo bisogno che i nostri governi e i nostri leader assumano un ruolo guida”.

Una proposta come “Proud to pay more” -benché sia sostanzialmente inapplicabile perché non esiste un “luogo” nel quale sia concertabile una politica fiscale planetaria- merita tuttavia di essere considerata un interessante “indizio”: se la paura che il sistema economico e sociale globale possa non reggere le tensioni prodotte dalle colossali e crescenti disuguaglianze arriva addirittura ad auspicare di essere tassati di più pur di salvaguardare l’attuale assetto, evidentemente c’è qualcosa che non va nell’attuale dinamica dell’economia mondiale; qualcosa che non preoccupa più solo chi quelle disuguaglianze le subisce, ma anche chi ne trae beneficio.

Denunciare le crescenti disuguaglianze -come fa egregiamente il rapporto Oxfam (QUI il testo completo)- non è inutile, ma resta un grido nel deserto se non si trova il modo di correggerle strutturalmente, se chi governa -a tutti i livelli- non riesce produrre una politica fiscale che compensi efficacemente la divaricazione denunciata.

Se soggetti economici privati auspicano una reazione “riequilibrante”, scavalcando e anticipando in qualche modo i soggetti politici (che dovrebbero fare questo per mestiere), probabilmente l’economia è più malata di quel che crediamo, ma ha imparato a usare le parole giuste: resta da vedere se chi ha gli strumenti per farlo si muoverà o resterà per sempre ostaggio dei “balneari” di turno.