La Camera dei deputati ha approvato venerdì il “Decreto Sicurezza” che -salvo imprevisti- sarà confermato anche in Senato già questa settimana. La maggioranza festeggia e orgogliosamente grida in aula: «Siamo noi gli alfieri della socialità. Voi continuate a scegliere i centri sociali contro le divise!».
Un bel decreto “robusto” che introduce 14 nuove fattispecie di reato e aggiunge altre 9 tipologie di “aggravanti”. Un decreto che -per assicurare ai cittadini una maggiore sicurezza- prevede il carcere per chi dissente (anche solo opponendo resistenza passiva), punisce severamente le occupazioni abusive delle case, persegue il reato di blocco stradale e -considerato lo stato in cui sono costretti a vivere i detenuti e il numero record di reclusi suicidi- propone un energico giro di vite sulle rivolte in carcere introducendo, tra l’altro, modifiche significative in materia di detenzione per le donne incinte e madri, in particolare abolendo l’obbligo di rinvio dell’esecuzione della pena. Non mancano restrizioni sull’acquisto di SIM telefoniche da parte degli immigrati, l’autorizzazione delle forze di polizia a portare armi private senza licenza anche quando non sono in servizio e la definizione di circostanze peculiari nelle quali azioni normali -se commesse in un luoghi fumosamente definiti: zone rosse, “paraggi” del ponte sullo stretto, …- diventano reati, o reati che in un luogo particolarmente capriccioso diventano aggravati.
Sono questi i comportamenti che minano la nostra “sicurezza”? Ci sentiamo più sicuri se ad una donna incinta si nega il rinvio dell’esecuzione della pena, se ad un immigrato si impedisce di acquistare liberamente una SIM, se ad un detenuto si aggiungono anni di pena perché in carcere esprime il suo dissenso in forma passiva e non violenta?
“Sicurezza” è un termine tutt’altro che univoco: può avere significati molto diversi -spesso contrastanti tra loro- e definisce una percezione soggettiva. Chi non vorrebbe vivere sicuro? Tutto dipende dalla idea di sicurezza che abbiamo maturato: le misure che mettiamo in atto per perseguirla la dicono lunga su cosa riteniamo che la minacci e su chi riteniamo siano i nostri “nemici”.
Quanto la sicurezza sia importante lo avevano già capito gli uomini primitivi mentre facevano i turni per difendere la caverna dai possibili assalti dei nemici, affilavano pietre per farne armi o ammassavano sassi per proteggere il territorio di caccia. Poi ci siamo evoluti e abbiamo capito che per stare davvero sicuri la strada più efficace non era quella di avere più armi degli altri e innalzare muri sempre più alti perché i nemici avrebbero fatto ovviamente la stessa cosa e nessuno avrebbe mai potuto sentirsi davvero sicuro, ma fare accordi con i nemici per trasformarli in vicini, realizzare progetti comuni perché gli interessi fossero convergenti, superare le disuguaglianze per diminuire il rischio che il bisogno altrui diventasse una minaccia per noi. Non ci siamo mai riusciti del tutto, ma non abbiamo dubitato che questa fosse la strada maestra per sentirci davvero sicuri. Vive più sicuro chi non ha nemici di chi è barricato dietro cento cancelli.
Il decreto che la camera dei deputati ha approvato è basato su una idea di “sicurezza” calibrata sulla paura e sulle generalizzazioni, senza badare se contiene misure che stridono con i principi costituzionali e senza preoccuparsi delle ricadute negative sulla vita delle persone e su tutta la società. Ci stiamo orgogliosamente incamminando verso l’età della pietra: torneremo ad affilare le pietre e a fare i turni per difendere i confini della caverna. Finalmente sicuri.