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E’ certamente importante affermare con chiarezza e senza ambiguità i princìpi che riteniamo giusti e i diritti che consideriamo irrinunciabili; ribadirli ci ricorda gli obiettivi verso cui tendere e ci fornisce il criterio per verificare se le singole scelte che facciamo vanno nella direzione giusta.  Sappiamo tuttavia che non è difficile essere d’accordo sui princìpi (diritti della persona, giustizia, pace, equità, solidarietà, …) quando sono enunciati a livello generale; le difficoltà cominciano quando si scende di quota e quei principi vanno coniugati con la realtà, contestualizzati o -come si dice adesso- “messi a terra”. 

Mi ha sorpreso una recente affermazione di Elsa Fornero a commento di un contratto siglato tra un’associazione di imprese private che gestiscono Rsa [Residenze sanitarie assistenziali] e alcune organizzazioni sindacali: “è un contratto che prevede una retribuzione oraria di 5-8 euro lordi per i lavoratori del settore, corrispondenti a neanche 1.000 euro netti mensili: un livello insufficiente a garantire l’autonomia finanziaria di una persona, soprattutto se con carichi famigliari. Il rimedio non può che essere il reddito minimo, del quale occorre cominciare a parlare in termini propositivi e operativi.”.  Difficile non essere d’accordo con il principio che la retribuzione di un lavoro a tempo pieno garantisca un livello sufficiente di autonomia finanziaria, più complicato riuscire a coniugare questo principio con la sostenibilità economica di una Rsa, dunque con il livello delle rette che quella sostenibilità rendano possibile. 

La retribuzione di chi lavora non è mai (tranne che nelle fiabe) una variabile indipendente dal costo del bene o del servizio che viene prodotto: se il costo lievita  il servizio rischia -nel caso delle Rsa convenzionate- di non poter essere sostenuto con le rette dalla Regione che se ne fa carico o -nel caso delle Rsa private- di essere accessibile solo ad una ridotta nicchia di utenti facoltosi. E allora? Come garantire a chi lavora un reddito minimo “accettabile” e al tempo stesso garantire l’offerta di un servizio necessario ad un costo “sostenibile”? 

Siamo sulla pista di atterraggio del principio generale! E’ qui che il principio su cui tutti eravamo d’accordo diventa materia complicata e divisiva. E’ qui che le diverse priorità e i diversi orientamenti politici diventano visibili e conflittuali. Fissare per legge un salario minimo? Fissare per legge un reddito minimo? Fissare per legge il livello di servizio che “deve” essere offerto dalle istituzioni pubbliche? Fissare per legge una modalità fiscale che “rifornisca” adeguatamente le istituzioni? 

Tutto si può “fissare per legge”, ma se le variabili sono -come sono!- tutte interconnesse, non basta fissarne una (o solo alcune) pensando che le altre si adatteranno senza problemi. Nel bene e nel male la realtà è più ampia della legge: fissare il salario minimo non eliminerà il “nero”, fissare i livelli dei servizi erogati non eliminerà le irregolarità, fissare le modalità fiscali non eliminerà l’evasione…  e questo -ovviamente- non significa che non si debbano fissare regole, controlli e sanzioni, ma non illudiamoci, non serviranno controlli e sanzioni se le regole fissate non tengono conto delle diverse variabili e se chi difende gli interessi di una parte non trova (o non cerca) il punto di equilibrio con chi difende quelli della parte opposta.

Tutti vorremmo vivere in un mondo in cui la giustizia prevale sulla sopraffazione, non è la forza a decidere chi ha ragione e la concordia compone gli interessi contrapposti, ma… quel mondo non è (ancora) quello in cui viviamo: dobbiamo continuare a disegnarlo, a crederci e a dircelo, ma -ancor di più- a perseguirlo costruendo equilibri sempre più avanzati facendoci carico della complessità che ci è affidata.