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Ci sono situazioni, come  i tragici eventi di questi giorni in Israele e a Gaza, di fronte alle quali le parole non bastano, non servono e a volte sono dannose. La maggior parte delle parole che ascoltiamo, leggiamo e pronunciamo finiscono -malgrado le buone intenzioni- per essere classificabili come sterili esecrazioni o generiche speranze tanto condivisibili quanto infondate.

L’orrore è oltre il limite di sopportazione, il dolore che le persone coinvolte hanno provato e stanno provando è inimmaginabile e l’analisi storica delle cause ci spinge in un dedalo cruento lungo ottanta anni che è quasi impossibile scomporre o decifrare con lucidità se non sposando a priori una univoca chiave di lettura, peccato che le chiavi univoche, nelle situazioni complesse, di solito non aprono nessuna porta.

Ma se le parole -in queste circostanze- rischiano di diventare solo sfoghi impotenti o inutili esercizi retorici che alternative abbiamo? Quali atteggiamenti possiamo assumere? Ne ho individuati tre (non alternativi  tra loro): il silenzio riflessivo, la preghiera fiduciosa e l’ostinato impegno a recuperare lucidità.

  • Il silenzio riflessivo può apparire un disimpegno inutile quanto le esecrazioni, ma almeno non contribuisce ad aumentare la confusione delle infinite repliche e consente approfondimenti impossibili nel baccano emozionale.
  • La preghiera fiduciosa è attraente e rasserenante, ma è una strada che può permettersi solo chi crede con convinzione che le sorti della storia non dipendono solo dalle azioni degli uomini che la abitano, ma hanno un regista esterno disposto ad intervenire per modificarle positivamente o per aiutarli a farlo efficacemente.
  • L’ostinato impegno a recuperare lucidità esige molta pazienza: non riuscendo ad identificare una via risolutiva nei tempi brevi e non riuscendo neppure a disegnare un percorso certo sui tempi più lunghi, dobbiamo identificare e perseguire almeno le condizioni che ci consentano -una volta usciti dal vicolo cieco degli orrori incrociati di questi giorni- di riaccendere la luce di una visione politica realistica e percorribile. E’ un percorso impegnativo che mette a dura prova la nostra intelligenza, ci costringe ad andare oltre i paradigmi già noti e a guardare più lontano di domani; un percorso che non crede nelle scorciatoie ma vuole credere che la montagna può essere scalata.

Ha scritto in questi giorni il noto scrittore israeliano David Grossman: “Dovranno passare molti anni, anni senza guerre, prima che si possa pensare a una riconciliazione, a una guarigione. Nel frattempo, possiamo solo immaginare l’intensità delle ansie e dell’odio che ora schizzeranno in superficie. Spero, prego, che ci siano palestinesi in Cisgiordania che, nonostante l’odio nei confronti dell’Israele occupante, vorranno prendere le distanze, nelle azioni o con una condanna, da quanto hanno commesso membri del loro popolo. Io, come israeliano, non ho il diritto di fare prediche e di dire loro cosa fare. Ma come individuo, come essere umano, ho tutto il diritto -e il dovere- di esigere che si comportino in modo umano ed etico.

Ci può forse aiutare la consapevolezza che non è la prima volta che la storia attraversa un momento così buio da non lasciar intravvedere neppure una via d’uscita, eppure -sebbene con costi umani altissimi- ne siamo usciti. Forse -come fa dire Orwell al protagonista del suo romanzo- “Non è tanto restare vivi, quanto restare umani che è importante.”