Come sempre la formazione di un nuovo governo fa emergere la difficoltà intrinseca di ogni democrazia: quella di essere costretti a trovare un punto di equilibrio tra soggetti diversi, portatori di interessi spesso divergenti, reciprocamente sospettosi, decisi ad acquisire prestigio e riluttanti a cedere potere. Questa volta hanno giocato a favore tre variabili: il profilo del presidente incaricato, autorevole e formalmente al di sopra delle parti; l’oggettiva improrogabilità delle questioni da affrontare e infine l’inconfessata paura delle elezioni anticipate, difficilmente difendibili e -per ragioni diverse- da tutti temute in questo momento.

Il governo ora c’è e -che piaccia o non piaccia- possiamo solo sperare che si metta al lavoro subito con efficacia, rimandando ad un’altra stagione la litigiosità che cova in ogni coabitazione a Palazzo Chigi.

Il nuovo governo è fatto, ma che fatica la democrazia! Mediare, comporre, smussare, patteggiare, riformulare, garantire, ricomporre e alla fine ritrovarsi a guidare una macchina composita, dalla dubbia affidabilità, su impervie strade di montagna.

Che fatica! Tutti la sentiamo, ce ne lamentiamo, tutti vorremmo che esistesse una scorciatoia… che non c’è. Siamo infastiditi dalla complessità e spesso amareggiati dai risultati, ma -malgrado tutto- credo che nessuno di noi preferirebbe domani mattina svegliarsi nella Bielorussia di Lukashenko o in Myanmar con i militari del generale Min Aung Hlaing all’incrocio sotto casa!  Come è noto, Winston Churchill sosteneva che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”. E pare sia proprio così: non abbiamo niente di meglio.

La democrazia è faticosa perché funziona bene solo se la maggior parte dei cittadini è cosciente, informata, vogliosa di vivere in un ambiente organizzato, tendente al bene comune. E quand’anche questo equilibrio magicamente di verificasse, basta poi una crisi imprevista, un accidente come il virus, uno squilibrio di poteri non compensato tempestivamente, una generazione di classe dirigente non proprio all’altezza e si deve ricominciare daccapo a costruire un nuovo equilibrio. E’ un film che, purtroppo, conosciamo bene.

La democrazia è dunque per sua natura un sistema di governo precario, non è garantito dalla forza delle armi ma dalla forza del consenso, oggi sempre più esposto ad essere variabile e manipolabile. In una sua nota su Agensir (QUI) M. Accorinti identifica tre caratteri specifici della nostra democrazia oggi particolarmente indeboliti o a rischio: l’effettività, cioè la possibilità di aver non solo riconosciuti dei diritti ma anche di essere nelle condizioni strutturali e istituzionali per esercitarli effettivamente da parte di tutti i cittadini; la reale partecipazione, cioè la percezione dello Stato come realtà partecipata di tutti; la mediazione della partecipazione attraverso il sistema dei partiti. I partiti come luogo di partecipazione dei cittadini non funzionano più perché questi vengono percepiti sempre più legati a interessi particolaristici; l’applicazione del principio di effettività non è estesa a tutti i diritti sociali e anche la illusoria scorciatoia della democrazia diretta sta tramontando.

E allora che fare? Siamo consapevoli che la nostra democrazia è un sistema faticoso e fragile, ma a pensarci bene non è una novità e comunque non abbiamo ancora inventato sistemi migliori. Quello che possiamo e dobbiamo fare è impegnarci a migliorare questo sistema dall’interno, trovando forme organizzative più efficaci e selezionando meglio la qualità dei nostri rappresentanti. 

Non è furbo continuare a lamentarci della macchina sulla quale viaggiamo ed evidenziarne passivamente i difetti quando è l’unica che abbiamo. Meglio migliorare la manutenzione, riparare quello che non va e scegliere buoni autisti. Se si rompe definitivamente saremmo costretti a fare l’autostop e non si sa chi potrebbe passare.