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Ho incontrato in questi giorni la maestra di una scuola materna e mi ha raccontato del natale a scuola, di come ne parlano i bambini, di cosa si aspettano. Nessuna novità clamorosa: sanno che non si va a scuola, raccontano che in casa si addobba un albero con molte luci e -soprattutto- attendono dei doni che, diversamente da altre occasioni, sceglieranno loro stessi chiedendoli a babbo natale.

Ho chiesto -incautamente- alla maestra se a scuola avessero allestito qualcosa di natalizio tipo albero, presepio…, ma alla parola “presepio” mi ha guardato come fossi un alieno: “presepio?, ma per carità! abbiamo già abbastanza problemi per andarcene a creare altri!”. Ho quasi pensato di dovermi scusare per aver toccato una questione così inopportuna e “politicamente scorretta”!

Ovviamente conosco bene il tema e non intendo affatto iscrivermi all’elenco dei lamentosi nostalgici di una società uniformemente e acriticamente allineata, almeno in superficie, sulla dimensione confessionale del natale: le società cambiano e si modificano in profondità le convinzioni delle persone che le compongono, i loro “riti” e le loro priorità; questi cambiamenti sono molto veloci e -che ci piaccia o no- irreversibili. La mia riflessione non riguarda dunque né la nostalgia, né la confessionalità, ma un “pericolo” che avverto più ampio e più dannoso. 

Il “terrore” del presepio è solo un esempio del timore -ormai silenziosamente diffuso- che l’espressione e la rappresentazione di una qualunque convinzione identitaria (religiosa, ideologica, politica…) possa essere bollata come divisiva, irrispettosa e scorretta. Capirei questo timore se si trattasse di reagire ad espressioni, rappresentazioni e convinzioni imposte dall’alto quasi ad omologare tutti su un’idea o un simbolo, ma se -per paura o per malinteso senso di “identità divisiva”- eliminassimo qualunque affermazione valorialmente connotata, resterebbe solo un grande vuoto, una omologazione al ribasso il cui minimo comune multiplo sarebbe davvero minimo.

Ogni identità è -a suo modo- “divisiva”, ma nel senso che evidenzia e descrive le differenze che realmente esistono tra soggetti diversi: “divisiva” non vuol dire necessariamente ostile, né contrapposta, né escludente. Il vero rischio non è che le diverse identità e convinzioni si riconoscano (come sono) diverse, ma che rinuncino del tutto ad esprimersi generando così un silenzio culturalmente cimiteriale o, peggio ancora, pretendano che la propria sia l’unica prospettiva accettabile.  Temo una generazione che cresca senza nessuna dimensione simbolica, senza una qualsiasi forma di spiritualità, senza l’esigenza di approfondire le possibili chiavi di lettura della vita oltre il semplice trascorrere del tempo, oltre la dimensione piatta in cui la cronaca di ciò che accade prende il posto delle ragioni per cui accade.

Non ho nessuna paura del presepio o di qualunque altro simbolo che esprima un senso, una ricerca di significato per la festa che facciamo: ho invece molta paura che -cancellando ogni simbolo e ogni dimensione spirituale- finiamo per fare feste senza significato e l’unico valore “non divisivo” resti il banale consumismo simboleggiato da un panciuto e rubicondo babbo natale.

Il mio augurio per Natale è dunque quello di riuscire ad accettare quello che è diverso da noi senza dover rinunciare ad essere quello che siamo; di riuscire a “giustapporre” più spesso che a “contrapporre” e di riuscire -malgrado il periodo di guerre e divisioni che stiamo attraversando- a sperare “fattivamente” che le possibilità di trovare soluzioni condivise siano sempre di più di quelle che riusciamo ad immaginare.