Quando, negli anni novanta, ero assessore alle politiche sociali per il comune di Roma, mi sono trovato più volte di fronte a persone disperate che chiedevano all’amministrazione di trovare una soluzione al loro problema. Non sempre era possibile trovare la soluzione nei tempi brevi che l’urgenza avrebbe richiesto e a volte non era possibile nemmeno nei tempi lunghi: per mancanza di risorse, per impraticabilità giuridica, per non ledere diritti altrui o per ragioni diverse. I quei casi dovevo decidere se “illudere” quelle persone disperate promettendo una risposta che sapevo benissimo non essere possibile o -più onestamente- spiegare loro che la risposta non sarebbe arrivata, soffocando anche la speranza di una soluzione, abbandonandole alla disperazione. Sono stati momenti difficili, come sempre quando si tratta di scegliere fra due opzioni entrambe amare. Spesso mi sono chiesto se avessi il diritto di negare loro anche la speranza che le cose potessero cambiare, almeno un po’, almeno nel tempo, almeno lavorando sulle variabili che impedivano il cambiamento (e mi sono risposto di no).
La linea che distingue la speranza dall’illusione è assai sottile, a volte quasi invisibile, perciò assai difficile da stabilire. Eppure una linea di confine c’è, una differenza sostanziale che ci impedisce di considerare l’illusione una semplice overdose di speranza. La speranza è operosa e critica, comporta il darsi da fare, assumere una responsabilità verso se stessi, riconoscere i limiti delle possibilità che abbiamo e cercare di superarli sin dove è possibile. L’illusione è una bugia senza fondamento che nasconde la realtà: una bugia consapevole se venduta da qualcuno per interesse o inconsapevole se nasce dal bisogno di rimuovere la realtà perché troppo angosciosa.
La speranza si costruisce, è difficile e faticosa, è sempre imperfetta e indefinita; l’illusione, invece, si vende o si regala con facilità, è gratuita, perfetta e definita [ideale per le campagne elettorali!]. L’illusione inoltre è deresponsabilizzante perché comporta sempre una delega a un “miracolo”, a una magìa o a un fato favorevole, insomma ad un evento che -pur nella sua assoluta improbabilità- viene considerato invece semplice e risolutivo.
Potremmo concludere, usando al rovescio la famosa frase di Shakespeare sui sogni, che -benché siano “confinanti”- la speranza non è fatta della stessa sostanza di cui è fatta l’illusione.
Spesso -quando la realtà diventa dura- ci viene la tentazione di considerare anche la speranza un lusso che non possiamo permetterci: ci sembra quasi di dover scegliere tra una realtà senza speranza e una speranza senza realtà, oscillando tra la fiducia nella vita e la resa incondizionata al nemico. Eppure, malgrado l’apparenza, mi sono convinto (spero non sia un’illusione!) che i due stati d’animo sono conciliabili e complementari. Prendere consapevolezza della realtà e dei suoi limiti, anche estremi, è doveroso e sintomo di maturità; rinunciare a coltivare la speranza è invece poco maturo e per niente doveroso. Fosse anche ridisegnata, riformulata o ripensata, la speranza è sempre un diritto e ancor di più un dovere: nei confronti di noi stessi, degli altri e di chi verrà.