Tredici agosto 1961, sessanta anni fa, in una notte fu costruito il muro di Berlino e ci sembrò una sconfitta e una minaccia. Nove novembre 1989, trentadue anni fa, in una notte fu abbattuto quello stesso muro e ci sembrò una conquista e una promessa.
Entrambe le volte peccammo di ingenuità. Avevamo ragione a temere che l’evento divisivo fosse segno di esasperazione del conflitto e a sperare che il suo superamento fosse premessa di relazioni positive, ma peccammo di ingenuità perché credemmo entrambe le volte che bastasse l’evento a cambiare direzione alla storia e, soprattutto, che il cambiamento fosse -nel bene e nel male- definitivo e irreversibile.

Per quanto simbolico possa essere (e di simboli credibili abbiamo tutti bisogno!) nessun muro chiude per sempre e nessun muro abbattuto apre per sempre. Ci sono muri materiali e immateriali, muri che proteggono e muri che dividono, che salvano e che condannano: ai muri il senso lo danno il progetto che c’è dietro, la visione che sottendono e gli interessi che perseguono.  

Quale progetto c’è dietro al muro invalicabile di filo spinato eretto al confine tra Bielorussia e Polonia verso cui migliaia di afghani, siriani e kurdi sono spinti con violenza dalla polizia bielorussa per essere respinti, con altrettanta determinazione, dalla polizia polacca? Quale visione di Europa sottende? E’ un problema da lasciare solo alle scelte della Polonia o esigerebbe una strategia comunitaria convinta, condivisa e perseguita con coerenza? Ovviamente le stesse domande valgono per i migranti che fuggono attraverso il “muro liquido” del Mediterraneo: sono un problema da lasciare solo alle scelte (estremamente variabili a seconda del governo in carica) dell’Italia o del suo ministro dell’Interno? Come ha ribadito la ministra Lamorgese qualche giorno fa alla presentazione dei corridoi umanitari dall’Afghanistan: “L’Italia è un Paese accogliente, non tutti i Paesi hanno questa propensione all’accoglienza, al rispetto dei diritti umani. È giusto che si salvino le persone ma è ingiusto che sia solo l’Italia a occuparsene solo perché è il Paese di primo approdo. Il principio di solidarietà dovrebbe essere il principio cardine dell’Europa“. Non si tratta dunque di elemosinare ogni volta dai paesi comunitari geograficamente meno coinvolti piccole quote di disponibilità per “piazzare” i profughi in arrivo, ma di dare corpo ad una vera strategia comunitaria ampia e condivisa, capace di gettare lo sguardo oltre Lampedusa, Tripoli, Minsk e Lesbo per costruire un progetto politico credibile e perseguibile.

Un esigenza ben sintetizzata dal Centro Astalli la settimana scorsa, in occasione dell’anniversario della caduta del muro di Berlino: “Oggi, in uno dei tanti paradossi della Storia contemporanea, mentre si celebra l’anniversario della caduta del muro di Berlino e il sogno di un’Europa senza frontiere, aperta, solidale e democratica, migliaia di migranti vengono usati come armi di ricatto in un braccio di ferro al confine orientale dell’Europa. Le immagini che ci arrivano dal confine polacco in queste ore, le dichiarazioni della politica nazionale e comunitaria, mettono in atto un tragico gioco delle parti in cui migranti, vittime di guerre e persecuzioni, diventano il nemico da cui l’Europa e i suoi governi nazionali vogliono difendersi”.

Sempre se davvero è questo il progetto che vogliamo, se davvero la solidarietà è il “principio cardine” dell’Europa, se davvero riteniamo che la logica del castello col fossato e dei ponti levatoi alzati non sia la migliore delle strategie. Sarà questo quello che vogliamo o, come già si chiedeva Ivano Fossati in una bella canzone del 1983, “saremo noi che abbiamo nella testa un maledetto muro”?