Venerdì scorso al forum di Davos il direttore del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha affermato: “Sulla crisi dei rifugiati l’Unione europea si gioca la sopravvivenza stessa del trattato di Schengen” (QUI), la convenzione che da più di vent’anni ci consente di girare liberamente, senza controlli alle frontiere, in una vasta area che comprende oggi 26 paesi europei. Ma la convenzione di Schengen è qualcosa di più di un simpatico sistema per non fare file alle frontiere e spostarci tra Roma, Berlino e Parigi come se andassimo da Milano a Bari o da Corviale a Pietralata, è un accordo che -oltre a far risparmiare tempo e soldi a milioni di persone- costituisce la simbolica affermazione della logica dell’apertura e della condivisione su quella della chiusura e del controllo. La logica che non nega i rischi, ma scommette sul fatto che le opportunità siano maggiori dei rischi stessi. (Forse qualcuno si ricorda, quando nel 2007 molti paesi dell’est entrarono a far parte dell’area Schengen, la “sindrome dell’idraulico polacco”, il timore cioè che folle di idraulici polacchi sarebbero arrivati in Italia rubando il lavoro agli idraulici nostrani. Così non fu e trovare un idraulico è ancora oggi discretamente difficile).
La caduta delle frontiere interne dello spazio Schengen ha per corollario il rafforzamento delle frontiere esterne. Gli stati membri che si trovano ai suoi confini hanno dunque la responsabilità di organizzare controlli rigorosi alle frontiere. Lo spazio “Schengen” funziona insomma come un grande condominio in cui gli inquilini del primo piano (cioè gli stati ai confini dell’area) devono garantire agli altri che faranno attenzione a non far entrare intrusi senza controllo (e questo può essere ragionevole), mentre la convenzione di Dublino stabilisce una regola molto meno ragionevole, e cioè che gli inquilini del primo piano hanno l’onere di identificare e stabilire se i richiedenti asilo hanno i requisiti per essere accolti come rifugiati, ma se decidono che hanno questo diritto, non possono poi consentire a questi rifugiati di stabilirsi in un altro paese europeo e se li devono tenere tutti al primo piano! Ovviamente chi si può permettere di arrivare in Europa in aereo e chiedere asilo all’aeroporto di Stoccolma non ha problemi, ma chi arriva su un barcone e chiede asilo a Pozzallo qualche problema ce l’ha ed è improbabile che partendo dalla Libia il barcone approdi a Stoccolma!
A settimane alterne tutti dicono che bisogna superare la convenzione di Dublino, ma i mesi passano e la convenzione è ancora lì.
In compenso un giorno sì e un altro pure (soprattutto da quando i richiedenti asilo hanno cominciato ad arrivare via terra e a bussare alla porta di paesi diversi dall’Italia e dalla Grecia) molti chiedono di sospendere la convenzione di Schengen e tornare a chiudere le frontiere interne. O addirittura -come in Ungheria- a sigillare fisicamente i confini con il filo spinato. E’ la logica del recinto contro la logica della realtà. E’ la negazione del cammino fin qui percorso. E’ tornare a credere che i rischi siano maggiori delle opportunità. E’ illudersi che blindando le porte e chiudendo le finestre quello che succede fuori non ci riguarderà. Non è una scelta che affronta i problemi e prepara il futuro, è una politica che nasconde i problemi e si ripiega sul passato.
Non è saggezza, è vecchiaia.