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Sempre più spesso, quando nelle interviste viene chiesto a qualcuno di esprimere la sua opinione, mi capita di ascoltare risposte che con la domanda dell’intervistatore hanno poco o niente a che fare e -incredibilmente- chi ha posto la domanda non sembra rendersene conto: ringrazia e va via!  Neanche una reazione composta tipo “mi scusi, ma non è questo che le avevo chiesto…”: un modo di fare informazione davvero singolare in cui la domanda resta senza risposta, l’opinione dell’intervistato resta sconosciuta e a tutti sembra andare bene così. 

Pesco, tra i molti esempi possibili, un paio di questi casi di “non sequitur” tra domanda e risposta. Dopo il Consiglio dei Ministri riunito a Cutro -in seguito al naufragio del barcone di migranti- il presidente ha comunicato la decisione di varare un nuovo decreto che inasprisce le pene (fino a 30 anni) per chi “promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato“. Successivamente un giornalista -rilevando che gli unici soggetti realisticamente perseguibili sono (e neanche sempre) coloro che guidano i barconi- ha chiesto al sottosegretario agli interni: “Aumentare le pene per gli scafisti senza  toccare i boss del traffico è davvero una misura efficace?” e la risposta è stata “Le aggravanti per gli scafisti sono strumenti necessari e doverosi per evitare le tragedie del mare”.  Ma… la domanda era sull’efficacia e la risposta è stata sulla necessità e la doverosità.

Il secondo esempio riguarda la domanda rivolta da un deputato al presidente del consiglio durante il Question Time di Montecitorio sulla ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità che l’Italia è rimasto l’unico Paese Ue a non aver ratificato: “Quando ratificherete il Meccanismo Europeo di Stabilità?”, e la risposta è stata “Finché ci sarà un governo guidato dalla sottoscritta non lo utilizzeremo…”.  Ma… la domanda era sulla ratifica e la risposta è stata sull’utilizzo.

In politica -non è una novità- il “non sequitur”  è spesso il modo per evitare di rispondere nel merito della domanda (l’altro modo è quello di buttare la palla in tribuna come nell’ormai proverbiale “e allora i marò?”), tuttavia la sconnessione logica tra la domanda e la risposta è frequente anche al di fuori della politica, specialmente quando vengono espresse opinioni da chi non ha conoscenza della materia e si limita ad improvvisare o a ripetere quanto sentito.

Non è obbligatorio (non sarebbe possibile!) essere esperti su tutto, né dover esprimere su tutto un’opinione. Lo scrittore americano Harlan Ellison sosteneva che “tutti hanno diritto ad avere un’opinione, ma tutti abbiamo il dovere di averla informata” e penso che avesse ragione, anche perché se non è informata non è neppure una vera “opinione”; può essere un auspicio, un disappunto, un rammarico, uno stato d’animo, ma avere un’opinione è un’altra cosa: è “situarsi” rispetto ad una questione che conosciamo, scegliendo -fra diverse opzioni- quella che riteniamo migliore sapendo quindi motivare la nostra scelta. 

Non dovremmo confondere il diritto di avere ed esprimere un’opinione, con la fondatezza e la difendibilità dell’opinione che esprimiamo. Se vogliamo farci un’opinione sulla flat-tax, sulla gestione delle migrazioni, sulla transizione energetica, sulle politiche del lavoro o su qualunque altro argomento che non sia solo basata sulla simpatia o antipatia che proviamo verso chi la sostiene, l’unico modo che abbiamo è informarci, approfondire e confrontare le diverse opzioni. In alternativa possiamo solo fidarci del parere di chi stimiamo o -perché no?- limitarci ad ascoltare criticamente in attesa di formarci una nostra opinione “informata”.