Nel 2016, l’attore Will Smith -parlando di razzismo negli USA- ha detto: “Racism is not getting worse, it’s getting filmed“, cioè «Il razzismo non sta peggiorando, viene solo filmato» e aveva ragione. La brutalità della morte di George Floyd a Minneapolis ci ha toccato nel profondo non per la sua eccezionalità, ma per la velocità e la capillarità con cui è arrivata sui nostri computer, telefoni e social. Non è la notizia che ci ha tolto il fiato e ci ha fatto inorridire, è l’immagine. Se questi video non esistessero, ci sarebbe una sola versione dei fatti, spesso molto distante dalla verità dell’accaduto, archiviata in qualche verbale di polizia e difficilmente contestabile.
Come rimanere insensibili di fronte a quelle immagini? Come non provare ad immaginare cosa possa aver pensato e provato George Floyd in quegli 8 minuti e 46 secondi? L’empatia è la capacità di comprendere lo stato d’animo di un’altra persona, è mettersi nei suoi panni, immaginare di essere l’altro che stiamo osservando. L’empatia è tanto più piena quanto più la nostra condizione è simile a quella dell’altro, quanto più siamo consapevoli della sua sensibilità, della sua storia, dei suoi sentimenti. Quando siamo empatici, appunto, immaginiamo. Ma questo nostro immaginare è limitato e -per quanto possa farci sentire moralmente “prossimi” a coloro stanno soffrendo- non ci dà accesso alla loro realtà. Per quanto sia eticamente lodevole, lo sforzo empatico riguarda noi stessi, può aiutare a conoscerci meglio, a riconsiderare alcune priorità e ad affinare alcune sensibilità, ma non ci “spiega” come stanno le cose, non aumenta la nostra conoscenza dei fatti: l’empatia è preziosa nella relazione interpersonale, ma è estremamente limitata al di fuori di essa.
In un suo bel post su Facebook () la scrittrice Francesca Melandri [Più alto del mare (2012), Sangue Giusto (2017)] confessa che, malgrado la sua familiarità culturale con gli Stati Uniti, l’intensa frequentazione della comunità afroamericana e le letture che ne sono seguite, ha capito fondamentalmente una sola cosa: che del posto degli afroamericani nella società e nella storia degli USA non aveva capito niente. “Ho letto, cercato di capire, certo. Ma l’intuizione che nulla, nulla mai, potrà far capire davvero a me, donna bianca italiana di classe media, cosa sono gli effetti sulla vita di chi da 300 anni ha subito e subisce stupri, omicidi, abusi, schiavitù, linciaggi, oppressione sistemica, incarcerazione di massa, omicidi legalizzati della polizia, redlining, eccetera, eccetera, eccetera, non è cambiata.” Francesca Melandri confessa il limite assoluto -praticamente l’impossibilità- di capire cosa significano per gli altri certi eventi se non è possibile condividere la loro storia, la loro memoria e il vissuto della loro esperienza.
Questo scarto tra il “conoscere” in astratto e il “vivere” quanto accade sulla propria pelle è stato in questi giorni ben descritto da Kareem Abdul-Jabbar, famoso giocatore e allenatore di basket afroamericano, che osserva: «Cosa pensate quando vedete le persone nere che saccheggiano i locali? Se siete bianchi probabilmente pensate “questo fa sicuramente male alla loro causa”. Poi vedete la stazione di polizia che va a fuoco, scuotete il dito e pensate: “La questione sta andando nella direzione sbagliata”. Non avete torto, ma non avete nemmeno ragione. Io non voglio vedere negozi saccheggiati o palazzi bruciare, ma la comunità nera vive da anni in un palazzo ardente, venendo soffocata dal fumo mentre le fiamme si fanno sempre più vicine. Dunque, ciò che vedete quando volgete lo sguardo verso i manifestanti neri, dipende da dove vi trovate: se siete in quel palazzo ardente o piuttosto lo guardate dallo schermo della tv con una vaschetta di pop-corn mentre attendete l’inizio del prossimo episodio di NCIS. Non voglio che si arrivi a giudizi affrettati. Ciò che mi interessa è che si vada spediti verso la giustizia.»
Non potremo mai metterci del tutto nei panni di un altro e capire fino in fondo i perché del suo sentire e del suo agire, né gli altri potranno mettersi nei nostri. Tuttavia, come in tutte le cose, c’è una gradualità che siamo chiamati a percorrere: tra il non poter capire fino in fondo e il fregarcene del tutto c’è sempre una determinante differenza. E’ la differenza fra chi immagina la sua vita come un viaggio solitario nel quale le vicende degli altri fanno al massimo da scenario e chi la immagina invece come un viaggio che siamo chiamati a fare insieme, cercando di capirci e di aiutarci perché il viaggio stesso abbia un senso.