Basta. Questa volta voto Grillo perché i politici mi hanno stufato tutti.

Basta. Questa volta voto Berlusconi perché almeno mi riprendo i soldi dell’IMU.

Basta. Questa volta voto Ingroia perché è l’unico di sinistra.

Basta. Questa volta voto Monti perché è competente e non grida.

Basta. Questa volta voto Bersani perché non ha messo il nome nel simbolo.

Basta. Questa volta voto bianca perché non so per chi votare.

Basta. Questa volta non voto perché ho la nausea.

 

Come tutti sanno il termine “perché” ha in italiano due significati molto diversi: quello causale (“vado a dormire perché sono stanco”) e quello finale (“ti regalo la bicicletta perché tu possa arrivare prima”), nel senso di “affinché”.

Ecco la differenza è tutta qui.

Molti pensano che votare secondo le proprie convinzioni significhi sostanzialmente trovare le cause del voto che si esprime e le cercano ovviamente nel passato: nel passato dei candidati, dei partiti e anche nel proprio passato personale. In questa prospettiva il voto diventa un giudizio, un atto conclusivo. Chi vota si sente l’esaminatore che può finalmente promuovere o bocciare, assolvere o condannare. Il voto è vissuto come l’occasione per vendicare i soprusi  subìti  (veri o presunti). E’ il raro momento in cui Cenerentola si sente finalmente corteggiata.

Ovviamente a chi vive il suo voto come il voto sulla pagella (forse non è un caso che si chiamino allo stesso modo!), interessa molto più il passato che il futuro: l’attenzione è su quanto è avvenuto, non su quanto dovrà avvenire. L’evento elettorale chiude un capitolo.

E invece le cose non stanno così.

L’evento elettorale non è la sentenza sul periodo concluso, ma l’atto di nascita del periodo successivo. La domanda implicita che le elezioni pongono all’elettore non è “valuta chi ha governato e come lo ha fatto”, ma “indica chi, a partire da domani, ritieni più capace di fare quello che vuoi”.

Può sembrare che le due domande si assomiglino, ma la prospettiva cambia radicalmente.

La causa e il fine non sono la stessa cosa e quello che conta è cosa succederà a partire dal giorno dopo le elezioni.

Per esempio non andare a votare potrebbe avere un significato politico se il voto fosse un giudizio sul passato (non classificato e vai a casa!), mentre non ha alcun senso nella prospettiva del futuro (non ti dico chi vorrei, fate voi…?).

O ancora “questa volta voto tizio perché è contro caio”  non ha molto a che vedere con il buon governo dei prossimi anni… o “voto tizio perché le sue idee coincidono con le mie convinzioni, anche se prenderà l’uno per cento” è molto gratificante per la coerenza ideologica dell’elettore, ma non ha alcuna efficacia sul futuro.

Guardare indietro o guardare avanti non è la stessa cosa e preparare un viaggio è più difficile e complicato che raccontare un viaggio già fatto.

Il “perché” del voto non deve essere un perché causale, ma un perché finale.

La differenza è tutta qui, ma non è una questione di grammatica.