Prendete una coppia di giovani impiegati precari, con due figli in età prescolare e un affitto sulle spalle. O un anziano pensionato che si scopra improvvisamente colpito da una malattia degenerativa e invalidante.

Situazioni sfortunate quanto anomale? Tutt’altro se, come afferma anche  il recente rapporto curato dall’associazione Bruno Trentin-Isf-Ires della Cgil, sono oltre nove milioni gli italiani che si trovano oggi a vivere “nell’area della sofferenza e del disagio occupazionale” (LINK).

Il che vuol dire spesso non riuscire a immaginare come tirare a fine mese, pregando tutte le sere che non si rompa la lavatrice o il frigorifero o, peggio, che non sia necessario ricorrere a cure mediche straordinarie.

Insomma storie di ordinaria povertà, vissute il più delle volte da milioni di cittadini in un dignitoso e pudico silenzio.

Eppure in tanti – politici azzimati, anime belle, opinionisti di grido – invitano a “pensare positivo”. Perché è alla fine vero che non si è mai visto un pessimista cosmico che abbia combinato fattivamente qualcosa di buono (tranne speculare in modo sublime sulla natura matrigna e compagnia bella). Ma è altrettanto innegabile che, certe volte, per scorgere un raggio di sole all’orizzonte è richiesta davvero una bella dose di fantasia.

Sì ma – come ricordano spesso a ragione i genitori di tanti trenta-quarantenni eternamente “vittime della crisi” – nel dopoguerra gli italiani non avevano quasi niente a disposizione. Spesso neanche l’acqua corrente in casa, figuriamoci i soldi per comprare un dizionario ai figli o un paio di scarpe in più per l’inverno.

Eppure allora chi si metteva con tenacia e impegno a perseguire un obiettivo alla fine, il più delle volte, riusciva.

E così ad esempio i miei genitori, arrivati negli anni ’60 neanche ventenni da Ostia nel cuore della Capitale, sono riusciti piano piano, lavorando indefessamente e a testa bassa, a mettere via i soldi per acquistare una casa a Monteverde, poi a poter mantenere dignitosamente una famiglia di tre figli, permettendo loro financo di studiare e di laurearsi rispettivamente in medicina, lettere e ingegneria.

Certo non avevano l’Ipad, né raffinatezze equivalenti del tempo. E di villeggiatura non si parlava, se non durante il mese estivo trascorso nella casa dei suoceri vicino al mare. Però credevano, a ragione, nel domani.

Nella possibilità di costruire per sé e per il proprio Paese un avvenire più prospero e, perché no, più equo e meno aprioristicamente determinato (che tu sia figlio di un lattaio o di un carabiniere poco importa: se sei in gamba e ti dai da fare onestamente potrai accedere a un futuro forse più promettente di quello dei tuoi genitori).

E oggi? Beh, oggi rateizziamo tutto: dalle spese per portare i bambini al mare fino all’acquisto dell’ultimo, maledettissimo smartphone.

E intanto, a differenza dei nostri pazienti genitori, siamo troppo spesso placidamente rassegnati all’immobilismo, alla palude, e non ci aspettiamo più dal Paese nessuna possibilità di vero miglioramento.

Perché? L’ha spiegato alla perfezione qualche tempo fa in un suo editoriale sul Corsera  Giuseppe De Rita: quello su cui potevano contare i nostri genitori, cresciuti a ciriole intinte nel latte e orzo e con indosso i cappotti rovesciati, era “l’incitamento alla mobilità” (LINK).

Senza questo indispensabile pungolo potremo illuderci finché vogliamo che, tutto sommato, ce la si può  fare.

Ma non riusciremo a muovere un passo per riportare il Paese, seppure in uno scenario inevitabilmente mutato rispetto al passato, sulla via della crescita. E della ragionevole speranza nel futuro.