«Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il
male con il male», Lev Nikolaevič Tolstoj.

Le cronache della società italiana degli ultimi ottant’anni raccontano frequentemente di “preti coraggio”. Tanti sono
i nomi di coloro, anche di religiose, che sospinti da un autentico sentimento di fede incarnano un modello
alternativo alla bruttura del retro pensiero mafiogeno. Infatti, l’avversione per ogni genere di sopraffazione e il
superamento di modelli sociali in cui violenza e paura soffocano il riconoscimento del valore e del merito devono e
possono essere superati, per dare sostanza all’articolo 3 della costituzione italiana e, cosa non da poco, agire nel
campo della correttezza, dell’etica e della sostenibilità sociale. Insomma, una società onesta è una società inclusiva,
partiamo da questo assunto.

Il modello di vita e di impegno di don Giacomo Panizza offre un esempio prezioso che è da cogliere come
un’opportunità da far conoscere e ammirare». Ma chi è Giacomo Panizza? Si tratta di un prete di frontiera,
potremmo dire, di quella frontiera interna al nostro stesso Paese, quella Frontiera invisibile che è stata tracciata tra
la civiltà e il progresso derivante dal sistema di valori sano che esprime la cultura e la società italiana e l’invalicabile
terra del soppruso, dove vige la logica del più forte, la terra della ‘Ndrangheda, che non è la Calabria in sè, luogo di
gente per bene e volenterosa, bensì la terra dell’ignominia che gli ‘ndranghedisti costruiscono attorno a loro con
l’omertà e la prevaricazione.

Ho conosciuto la figura di Don Giacomo con una trasmissione televisiva di Roberto Saviano del novembre 2010,
Vieni via con me. Da un articolo del giornalista campano pubblicato su Repubblica il 22 marzo 2011 dal titolo
“PICCOLI GRANDI EROI QUEL PRETE CORAGGIO E LA FORZA DEGLI ULTIMI”, riporto un breve brano che è
rappresentativo della biografia di Don Panizza: “Ci sono delle parole che si ha pudore ad usare. Quasi ci si sofferma
con una precauzione maggiore per capire se si sta utilizzando la definizione corretta. Si pronunciano quasi con
colpa, scusandosi, soppesandole sulla lingua già con un misto di compassione. Diventano un bolo di saliva, scuse e
imbarazzo ed escono dalla bocca con qualche sforzo. Una delle parole che si pronuncia così è “diversamente abile”.
Quella di don Giacomo Panizza è una storia diversamente abile, è una storia handicappata, giusto per dirla fuori dai
denti. Non è una di quelle storie che cominciano e finiscono facilmente, senza intoppi. Come una parabola lineare.
È una storia sghemba, storta, fatta di conquiste faticose che ha da subito preso direzioni impreviste, che non è
andata come ci si sarebbe aspettati. Quella di don Giacomo è una storia che nasce nel Bresciano e se ne va per una
strada tutta sua”.

Infatti Giacomo è un operaio sin dall’età di 14 anni in quella Lombardia motore d’Italia degli anni Sessanta. Ad un
certo punto Il giovane incontra la fede e la voglia di viverla come mezzo per tendere all’uguaglianza sociale e la
giustizia tra gli uomini. Una volta ordinato sacerdote non si sottrae alla chiamata verso una comunità in sofferenza,
e da Brescia, don Giacomo Panizza si trasferisce negli anni Settanta a Lamezia Terme e qui, in una terra fragile, inizia
a lavorare con i più fragili, disabili, persone escluse da una società retrograda e fortemente condizionata dal
pensiero mafiogeno.

Nasce dunque la Comunità Progetto Sud dalla volontà di don Giacomo che nel 1976 inizia a lavorare con persone
disabili, eleggendo a sede della sua comunità un palazzo requisito alla criminalità organizzata. Oggi la realtà da lui
fondata è un ecosistema di gruppi e reti che costruisce e diffonde politiche inclusive e accoglienti. Radicata nel
contesto calabrese, essa lavora e progetta con le comunità locali e il territorio, contrasta le ingiustizie e i metodi
mafiosi, promuove inoltre culture e pratiche solidali apprendendo dalle esperienze di vita associativa e di impresa
sociale e cooperando con molteplici realtà italiane e straniere.

Nel corso degli anni Comunità Progetto Sud ha subito numerosi attentati e, a causa delle numerose minacce
subite, don Panizza è costretto a vivere sotto scorta.

Sull’articolo di Saviano sopra citato leggiamo una domanda molto interessante: “ma perché a un boss della ‘
ndrangheta dovrebbero dare tanto fastidio “gli handicappati”? Semplice”, prova a rispondere il giornalista, “perché
don Antonio, boss dei Torcasio, quei “mongoloidi” come li chiama lui, se li è trovati come vicini di casa”. In quella
terra dove la logica della minaccia vince sulla capacità di dialogo si verifica il classico degli eventi, che nessuno
vuole entrare, seppur legittimamente e con il benestare dello Stato, in un bene confiscato, per di più accanto
all’abitazione del boss. Leggendo Saviano apprendiamo che “nemmeno il comando dei vigili vuole l’ assegnazione
di quello stabile per paura delle rivendicazioni della famiglia. Invece don Panizza accetta eccome quel dono. E
piano piano lo sistema, lo rende agibile e adatto a ospitare il suo Progetto Sud perché la forza di don Giacomo e dei
suoi ragazzi è proprio questa: il pensare in maniera diversa e utilizzare un’ abilità diversa per costruire un paese
diverso”.

In conclusione si può affermare, attraverso una storia straordinaria di impegno civile che nasce da lontano e
lontano ha portato , che solo operando il bene, come dimostra Don Giacomo , si può dare un contributo per creare
un’Italia diversa e migliore.