Interprete e traduttrice, consulente di autonomia personale, cooperante e sportiva. Sono solo alcuni dei colori di Ada Nardin, donna non vedente, impegnata con i suoi progetti formativi nella cooperazione internazionale ad aprire nuove strade, costruire opportunità inedite. Per le persone cieche e ipovedenti anzitutto, ma non solo. “Vogliamo essere un messaggio vincente”, ci ha detto Ada. Eclettica, coraggiosa, creativa: impossibile darle torto.

Ada, conosciamo soprattutto il tuo impegno nella cooperazione internazionale. Ci racconti qualcosa in più di te?

Ho studiato Lingue, Scuola Superiore per interpreti e traduttori e ho insegnato inglese e francese al Centro Regionale Sant’Alessio. Per conto dell’Unione Italiana Ciechi ed Ipovedenti seguo le problematiche legate alla Mobilità Autonoma, una condizione questa imprescindibile per le persone non vedenti, perché non debbano chiedere in ogni occasione di essere accompagnate. Sono consulente di autonomia personale e guida  di “Dialogo nel buio”, una mostra permanente all’interno dell’Istituto dei ciechi di Milano  che invito caldamente a visitare.

Collaboro con alcune realtà di quartiere come la Casa delle donne Lucha y Siesta, vicino  a Cinecittà, un bene comune che accoglie donne in difficoltà ed arricchisce il territorio di iniziative formative e culturali. Svolgo prevalentemente attività nell’ambito del sociale, tutte nell’intento di divulgare e sensibilizzare.

C’è poi  l’amore per lo sport, quelli di acqua in primis, come il nuoto, la vela. Ma anche il trekking e il baseball, quest’ultimo dalla valenza formativa, riabilitativa, agonistica e divertente, che non guasta… Senza dimenticare la musica: studio canto jazz, ambisco ad accrescere la mia capacità vocale. Purtroppo canto solo nei ritagli di tempo! Questi sono i colori variegati del mio arcobaleno.

Straordinario. Specie se si pensa che, oltre a tutto questo, sei in prima linea nel campo della cooperazione internazionale.

Sono talmente tante le mie attività,  tutte rilevanti per me, che quando mi chiedono “qual è il tuo impiego?” ho difficoltà a rispondere. Lavoro al Dipartimento delle Politiche Sociali di Roma Capitale come addetta alle pubbliche relazioni, al front office. Un ruolo impegnativo, specie laddove ci sono fragilità e si ha l’opportunità di indirizzare le persone verso la soluzione di un problema. Ho chiesto un part time verticale al fine di portare avanti i miei impegni.

Da dove nasce la tua vocazione di cooperante?

Probabilmente dalla mia passione per il viaggio e della scoperta reciproca. Prima di dedicarmi alla cooperazione – è dal 2007 che mi reco in missioni umanitarie – ho affrontato diversi viaggi “zaino in spalla”, senza troppi comfort, in alberghi improponibili. Una specie di sfida: sei costretta a vincere le tue micropaure.

Mi sento una cooperante. Era nel mio futuro, nel mio destino, alcuni direbbero nel mio “karma”.

Ci parli del primo progetto che hai realizzato in Mali?

“I fiori del Mali” è nato per caso, dall’incontro con due cooperanti nel corso di un viaggio in Sri Lanka. Lo definisco un “progetto leggero”, perché non si propone di costruire scuole. Io formo prima di tutto i formatori. Mi facevano ridere quei giornalisti che, quando mi intervistavano sul posto, chiedevano di scattarmi delle foto con i bambini, forse perché così pensavano che le immagini potessero risultare più coinvolgenti o vendibili. Semplicemente non era la verità.

“Seminare autonomia”, come hai scritto una volta in un bell’intervento sulla tua esperienza in Mali. Una esperienza di successo, come dimostrano anche le iniziative che si sono susseguite: “I fiori di Kinshasa” nella Repubblica Democratica del Congo con l’associazione Magic Amor e “I fiori del Kilimangiaro” in  Tanzania con la Mama Africa. Quali sono le finalità dei tuoi progetti?

Tra gli obiettivi, portare ausili tiflologici e materiale didattico per gli allievi ciechi e ipovedenti delle scuole, soprattutto da utilizzare per le materie scientifiche – il cui insegnamento per i ciechi non era proprio contemplato – e far conoscere le tecnologie assistive che rendono fruibile un buon numero di testi.

Quindi insegnare tecniche di orientamento e mobilità per permettere alle persone di spostarsi liberamente ed in piena sicurezza. Abbiamo spiegato ai ragazzi più grandi come ascoltare il traffico al fine di affrontarlo agevolmente. L’uso del bastone bianco è poco noto e per di più in città come Bamako o Kinshasa, non sembra esistere un piano regolatore del traffico: una volta, ad un attraversamento pedonale, ho dovuto sollevare il mio bastone – sembravo Mosè che divide le acque! – e dietro si sono accodati tutti per poter passare.

Le tecniche di protezione sono fondamentali. Abbiamo insegnato come i fossati per lo scolo delle fognature che si trovano lungo le strade – di cui le persone cieche avevano terrore – potessero  diventare  una sorta di “marciapiedi al contrario” e, attraverso la tecnica della ribattuta del bastone, indicare la direzione. In poche parole, come volgere in risorsa quello che poteva essere un ostacolo.

E poi, certo, abbiamo presentato anche alcune attività ludico-sportive, con la palla sonora. Tutto con uno scopo: quello di fornire coraggio, far capire che si può fare.

L’obiettivo di un cooperante è dare la spinta iniziale, poi bisogna andare via e lasciare che i fiori germoglino, in autonomia.

Ci racconti un episodio particolare dei tuoi viaggi come cooperante?

Durante le prime esperienze in Mali viaggiavamo insieme all’Aeronautica Militare. Inizialmente  aveva partecipato alle missioni un’operatrice del Centro regionale Sant’Alessio, poi un ingegnere informatico, Michelangelo Rodriguez. Nel 2011 siamo partiti lui e io da soli. È stato un fatto imprevisto: nei giorni precedenti al nostro arrivo in Mali c’erano stati dei rapimenti, culminati nel mese di novembre con l’uccisione di un tedesco, proprio nella zona in cui dovevamo operare. Due cooperanti si sono sfilate all’ultimo momento, e posso comprenderne le ragioni. Siamo partiti lo stesso. Non vorrò mai che simili rischi mi impediscano di portare a termine la missione. I miei non sapevano nulla di questo “dettaglio” altrimenti avrebbero forse tentato di impedirmi di partire!

Giunti a Bamako, la capitale del Mali, stremati dopo tantissime ore di volo, abbiamo cambiato i soldi, acquistato una gran quantità di casse d’acqua, e affrontato un viaggio estenuante di quasi 20 ore in 4×4 attraverso il deserto sino alla nostra meta, la città di Gao. Il viaggio ce l’ho dentro. Ricordo la luce, la polvere, il vento. Mi piace carpire i colori, quelli che riesco a scorgere nonostante il mio disturbo visivo.

Avevamo portato con noi dall’Italia delle insalate in scatola ma alla fine  ci siamo sempre nutriti di cibi locali. Nel deserto, spesso, carne alla brace.

A un posto di blocco, era ormai buio, i militari ci hanno intimato di non proseguire oltre. Alla fine hanno dato il loro benestare, dato che i predoni del deserto – c’era il coprifuoco – probabilmente non si sarebbero mossi. Ci hanno anche scortati. Io ero velata, per far pensare che fossi di lì. Al ritorno stessa cosa, solo che di giorno. Non c’era il coprifuoco e siamo passati proprio dove avevano rapito quei tedeschi. Sì, un po’ di paura c’è stata, ma ho scoperto che si può tenere sotto controllo. Il segreto è che non ci pensi e basta. Ho accantonato quel pensiero. Era troppo bello essere lì ed aver portato a termine quanto ci eravamo prefissati.

Cooperazione internazionale e mobilità autonoma. Quanto è stato fatto, quanto resta da fare?

È stato fatto ancora poco e resta da fare… tutto! C’è da fare tantissimo e non solo in Africa. Non basterebbe una vita: la mia testa e il mio corpo sono a disposizione. Intanto a fine febbraio partirò nuovamente per il Congo e mi fermerò lì una settimana.

Tra le altre iniziative durante l’anno  – per sostenere queste attività – organizzo alcuni eventi di fund raising, come le “Cene al buio”. Tramite i canali associativi chiedo anche di donare materiale didattico non più utilizzato per poterlo consegnare nelle scuole.

Seminare autonomia. E in Europa – in Italia – a che punto siamo?

Abbiamo compiuto molti passi avanti in termini normativi , ma è la testa delle persone che non riesce a cambiare. In Europa tendiamo ancora a tenere in ombra la disabilità. Viene comunicata tristezza e depressione. In Africa i ciechi vivono molto più in strada, hanno buone capacità di eco localizzazione, l’abitudine a non essere troppo accompagnati salvo i casi in cui gli anziani utilizzano i bambini come guida.

È l’informazione ad essere sbagliata. Se la cecità è presentata con il buio, musiche tristi,  il cieco non può che essere uno “sfigato”, qualcuno che staziona passivamente in attesa di chiederti qualcosa. Un cieco assoluto non vede il buio: non vede niente e basta. Parlo spesso di “stereotipo del cieco triste”.  Gli stereotipi sono un modo rapido e comodo di conoscere una condizione, poi però vanno ridisegnati sulla realtà.

Qual è allora il traguardo?

Considerare le persone con fragilità un po’ più persone e un po’ meno fragili. Smettere di vederle solo come portatrici di un disagio. Può esistere una difficoltà a compiere alcune azioni pratiche, tutto qui.

Parliamo di un altro tuo “colore”: lo sport. Ci racconti del tuo impegno come testimone di una disciplina particolare, il baseball giocato da ciechi?

Anche lo sport aiuta a seminare autonomia. Come dice un’atleta del Firenze, abbiamo un campionato con otto squadre. Già le fasi preparatorie sono importanti, perché devi fare più cose e da solo. Hai una squadra, dei compagni che si aspettano qualcosa da te.

Le attività agonistiche sono utili anche da un punto di vista riabilitativo, perché consentono di migliorare lo schema corporeo, di acquisire una percezione consapevole di sé nello spazio. I gesti tecnici del baseball affinano molte capacità: riuscire a individuare la direzione per raggiungere una base, calibrare la forza da impiegare nel lancio della palla, ritrovare la posizione quando si va in difesa.

Tra i primi di maggio e i primi di ottobre io e un altro atleta, Matteo Briglia, vivremo negli Stati Uniti – il paese che ha inventato questo sport! – per insegnare il baseball giocato da ciechi. Spero che si esaltino. Sarà una occasione per condividere buone prassi anche in altri ambiti come le nuove tecnologie e i facilitatori per la mobilità autonoma. Se il baseball diventerà sport olimpico nel 2020 sarà un ottimo volano perché il baseball giocato da ciechi sia riconosciuto come sport paralimpico (NdR: uno sport per diventare olimpico deve essere praticato in almeno tre continenti e per diventare paralimpico deve essere giocato in modo il più possibile autonomo e non assistito). Ci hanno definiti “ambassador”. Il nostro obiettivo sarà coinvolgere le franchigie di MLB (lega professionistica del baseball targato USA), appassionare i ciechi.

Ambasciatori ed apripista, quindi.

Mi ritengo una persona positiva. Il mio messaggio è questo: progetta i tuoi sogni con cura ed entusiasmo, realizzali senza aspettarti l’approvazione altrui, vivili pienamente con intensità e gioia.