E’ sempre istruttivo immergersi per un po’ in una cultura diversa dalla propria.
Aiuta a capire meglio le nostre abitudini, a definirne i confini e ad interrogarci sul loro senso.
Confrontandoci -senza pregiudizi- con stili di vita e valori diversi dai nostri è possibile cogliere la relatività di norme e comportamenti che altrimenti saremmo tentati di considerare assoluti.
Quest’anno -con gli amici di Praxis- siamo andati una settimana in Marocco. Ovviamente abbiamo visto solo il Marocco dei turisti, quello delle brulicanti medine multicolori, degli infiniti mercatini a labirinto, delle raffinate moschee (di fronte a quella immensa di Casablanca ho capito che effetto che deve fare San Pietro ai giapponesi !).
Sappiamo benissimo che quello che abbiamo visto non è tutto il Marocco e così come un turista che visita il Colosseo, Piazza Navona e il Quirinale non può dire di conoscere Roma (che ne sa lui di Corviale, Malagrotta e gli ingorghi sull’olimpica ?) o un viaggiatore che parla con un tassista nervoso, un cameriere stanco e un commerciante furbo non può dire di conoscere i romani, non possiamo certo affermare di conoscere il Marocco e i marocchini, tuttavia la breve “immersione” ha avuto il suo effetto: abbiamo intuito che 34 milioni di persone, un terzo delle quali sotto i 14 anni, in un paese bello e fertile grande il doppio dell’Italia hanno voglia di dire la loro e i numeri per dirla, soprattutto nei prossimi decenni.
Ovviamente nessuno si aspettava di incontrare cavalieri berberi galoppare nel deserto (tranne che negli spettacolini kitsch per turisti), ma è quando ci è sembrato strano vedere vecchi caracollare su un asino mentre parlano al cellulare e donne velate navigare velocemente su internet che ci siamo resi conto di quanto la nostra conoscenza degli altri sia condizionata dagli stereotipi che -ottuse semplificazioni!- ci impediscono di vedere e di capire.
Ogni paese islamico ci ripropone una visione del mondo e del tempo per noi così difficile da capire (ci sembra sempre che appartenga al passato, ovviamente al “nostro” visto che ci consideriamo la misura del mondo) e troppo facile da etichettare. Se, come dice Carlo M. Martini, “le religioni non sono nei libri, ma nel vissuto della gente di tutto il mondo” forse per capirle dovremmo smettere di leggere editoriali scritti in un attico dei Parioli e andare conoscere da vicino chi ogni giorno interpreta con quegli occhi la sua vita e la sua storia, ascoltando senza pretendere di saperne per forza più di lui.
Poco più di tre ore di aereo per ritrovarsi in un tempo diverso dal nostro, non un’altra epoca ma un tempo più “dilatato”, un tempo che sembra calibrarsi più sulle esigenze fondamentali che sui promemoria del blackberry.
Siamo tornati portando negli occhi i colori pastello del souk di Marrakech, nelle orecchie il muezzin che proclama cinque volte al giorno che Allah è grande e nell’anima la conferma che il mondo è più plurale di quanto crediamo.