Così si definisce, solitamente, il lavoro con i rifugiati. Il che è, evidentemente, un eufemismo. Nel bene e nel male. Ci sono dei rari sprazzi in cui ti sembra di fare un lavoro normale. Scrivi articoli, archivi documenti, ordini faldoni. Ma poi accade qualcosa, qualsiasi cosa, e ti devi ricredere. Un’altra definizione classica recita che i rifugiati sono persone ordinarie messe in circostanze straordinarie. E non c’è niente da fare, è quella straordinarietà che non può non toccare anche te, che pure ti limiti, il più delle volte, ad ascoltare. Tempo fa, a un corso di formazione, si parlava della “neutralità” dell’operatore. E il relatore, senza mezzi termini (qui a Astalli la diplomazia non va per la maggiore), disse: magari ci riuscite pure a fare gli operatori di un centro di accoglienza, o gli operatori legali, o gli insegnanti di italiano senza farvi toccare emotivamente dall’esperienza delle persone che incontrate. Ma, ammesso che ci riusciate: che persone siete?

No, non c’è niente da fare, nessuno di noi è neutro. L’altro giorno, in mia assenza, un ragazzo qui in ufficio ha tentato il suicidio. E’ stato salvato dall’interprete, che a sua volta giorni fa ci confidava la sua disperazione. Dopo essere avventurosamente riuscito a fare arrivare dalla Somalia i suoi bambini (per chi ha letto “Terre senza promesse”: è la storia del più fiero di tutti, di quello che non si vergogna a dire il suo nome), dopo aver salvato se stesso, loro, e l’altro giorno anche il suo sventurato connazionale, ora non sa come fare. Guadagna mille euro al mese e ha quattro figli. Medita di tornare in Somalia a morire vicino a sua madre. E noi a questa prospettiva ci sentiamo morire un po’ anche noi. Ricordo i ragazzi incontrati nei campi aperti di Malta, quelli che volevano tornare indietro, dopo aver rischiato la vita tante volte, per poter morire con dignità. E’ tutto sbagliato.

Dall’ufficio accanto al mio arrivano i singhiozzi di una madre che non crede di riuscire a fare arrivare qui i suoi bambini. Probabilmente, in effetti, non ci riuscirà. E stamattina si discuteva in ufficio del tema del ricongiungimento familiare ed era chiaro che ciascuno di noi, nell’avanzare questa o quella riserva a una possibile posizione di advocacy, pensava a volti precisi, a mogli precise, a figli precisi. Quelli che ciascuno di noi incontra e ha incontrato, dopo aver seguito per anni le loro peripezie burocratiche e le beffe del destino, varie ed eventuali.

Non ricordo se vi avevo raccontato di quel padre che, per fare arrivare in Italia le tre figlie minorenni, si è sentito chiedere non solo il certificato di morte di sua moglie, ma anche quello di sepoltura. Ok, alla fine l’ha spuntata. Le sue tre figlie sono qui e sono bellissime. Ma è un po’ poco per parlare di lieto fine, non vi pare? Ora devono trovare il loro equilibrio, la loro strada, una sostenibilità di qualche tipo.

Siamo arrabbiati, siamo stanchi, siamo annichiliti dall’ingiustizia che sembra moltiplicarsi sotto i nostri occhi in un groviglio inestricabile. Siamo anche scoraggiati dal fatto che a nessuno, proprio a nessuno pare interessare granché di queste cose. Avete presente quando cerchi di raccontare a un conoscente (o a un parente) qualche cosa che ti affligge, sia essa una malattia o una disavventura?  E quello/a si sente in dovere di interromperti dopo tre secondi cercando di dimostrarti che quello che è capitato a te, qualunque cosa sia, è molto meno grave di ciò che affligge lui/lei? Ecco, parlare di rifugiati in genere è così. “Eh, ma in questo momento…. Certo, sono problemi di tutti, pensa che mia nipote… Qualche sacrificio dovranno pur farlo… Che, sputano nel piatto dove mangiano? (questa, di tutte le obiezioni, mi è sempre parsa la più incomprensibile)”.

Ma poi, condiviso tutto ciò, c’è sempre qualcuno che dice: “Ma siamo sicuri che non si potrebbe magari provare a…”. E non ci si ferma, perché indietro non si torna e noi, ormai, ci siamo in mezzo.