Guardona e in vaga ricerca di discontinuità, questa nostra società, fiaccata da una crisi perdurante, e divenuta “sciapa e malcontenta”, ha intanto, in qualche modo, esorcizzato il baratro minacciato, esprimendo una forza di sopravvivenza tenace, ma tutta dilatata in orizzontale, alla ricerca di unaconnettività sociale atta a supportare, in lontananza dallo stato, un po’ di residuo fervore che si esprime in forme di solidarietà locale, di appello allo scheletro contadino, di fermento debole magari generato da soggettualità emergenti (le donne? gli immigrati?).
Non so se questa sintesi estrema è in grado di trasmettere il senso del nuovo rapporto Censis (come al solito, da leggere per intero e consultare nel tempo), quest’anno forse, nel fondo, meno spietato che negli anni scorsi, come forse esige la già pietosa situazione del paese.
In questa sconfortante cornice sociale, la politica continua a collezionare drammatiche sconfitte, delle quali talora non sembra nemmeno percepire la gravità: nel giro di pochi mesi due episodi istituzionali (fra gli altri) hanno certificato un duplice, pericoloso scacco. Il primo: dove la politica ha fallito (l’abbattimento del “tiranno”), ha fatto centro la magistratura, con la nota sentenza del 1° agosto; e, come, con incongrua solennità, dicono a sinistra, alle 17,43 del 27 novembre 2013, la politica ha seguito, fra incredibili contorsioni. Il secondo: dove la politica ha fallito (l’indilazionabile cambiamento – così dicevano in coro i nostri politici  sette/otto mesi fa – della odiosa legge elettorale) ha fatto centro la Corte Costituzionale. E la politica, forse, seguirà: tutti i politici, in coro, come parlando di altrui inadempienze, ripetono “ora non ci sono più alibi”. Intanto il Senato e la Camera si scontrano sull’assegnazione della riforma elettorale.
Qui non si tratta di coltivare pulsioni populiste (che mi sono estranee per natura, cultura e gusto): ma è certo che non è possibile perpetuare l’equivoco di una società governata da chi dovrebbe giudicare e giudicata, solo con parole e con parole da talk show, da chi dovrebbe governarla. Né si tratta di aggiungere rilievi alle tante, possibili critiche alla magistratura, che, nelle due fattispecie, ha fatto solo ciò che era dovere facesse, sia pure in tempi che altrove sarebbero inconcepibili (stiamo votando col “Porcellum” da diversi anni). Qui è in questione non so se la legittimità ma certamente la capacità di questa classe politica a governare un paese che ne ha immenso bisogno.
Non so che cosa c’è dietro l’angolo che, con la fine dell’anno, ci apprestiamo a svoltare; è certo che non possiamo vivere, senza correre gravissimi pericoli, un 2014 nella stessa condizione paralitica e sfibrata che ha caratterizzato il 2013, con buona pace del “semestre europeo”. Aspettiamo pure le famose primarie del PD con le novità che confusamente promettono di innescare; aspettiamo pure la verifica di governo della prossima settimana con gli impulsi che promette di imprimere. Ma, da entrambi gli eventi, dobbiamo aspettarci coseveramente nuove e azioni immediate. Altrimenti è meglio deporre ogni speranza che il sale per fermentare la società sciapa possa venire da un governo, che lo stato continui ad avere un posto (quello giusto) nelle aspettative dei cittadini, che si arresti la frana del malcontento.
Sarà pur vero, come dice il Censis, “che questa società, se lasciata al suo respiro spontaneo, produce frutti più positivi di quanto pensino un’opinione pubblica impaurita e una leadership politica ed amministrativa forse altrettanto impaurita, ma propensa a misurarsi sul controllo della capacità polmonare di un sistema che ha bisogno (e voglia) di respirare, di tornare a respirare”; ma di uno stato, auspicabilmente meno statalista e meno burocratico, abbiamo pur sempre bisogno; e non so che cosa ne resterebbe se la sua governance si mostrasse così incapace da dover, gli italiani, solo far conto sul loro scheletro contadino.