Questa vita che ti passa accanto e con le mani ti saluta e fa bye bye, questa vita un po’ umida di pianto con i giorni messi male vista dall’alto sembra un treno che non finisce mai…  e adesso, mio dio, dimmi cosa devo fare se devo farla a pezzi questa mia vita oppure sedermi e guardarla passare.”

(“Meri Luis”, Lucio Dalla, 1980)

 

I capodanni (e i compleanni) sono perfetti per darci la misura del tempo che passa provocandoci sentimenti contrastanti: siamo incerti se rallegrarci -come ci accadeva da bambini per la soddisfazione di sentirci più grandi e poter finalmente giocare la partita- o allarmarci per la spiacevole sensazione che sia ormai la partita a giocare noi.

Fino ad un certo punto ci viene facile considerare la vita come risultante di ciò che decidiamo, poi -anno dopo anno- appare evidente che una buona parte di ciò che ci accade non dipende affatto dalle nostre decisioni, ma dalla combinazione più o meno casuale degli eventi, delle persone che incontriamo, delle decisioni altrui. È a questo punto che sviluppiamo due atteggiamenti opposti: convincerci che non vale la pena di sforzarsi più di tanto per far andare le cose in un verso piuttosto che in un altro o convincerci che, malgrado le variabili fuori controllo, il significato delle cose lo decidiamo comunque noi.

Il primo atteggiamento è una scorciatoia sicura per la vecchiaia precoce (il club delle vittime del fato), il secondo presenta innegabili vantaggi tra i quali continuare a sperare che il futuro possa essere ragionevolmente migliore, riuscire a sorridere senza sembrare vittima di un ictus, garantirsi il diritto di lamentarsi se le cose non vanno bene, augurarsi “buon anno” senza che sembri una battuta di cattivo gusto. Buon anno, dunque, con l’augurio a tutti di far parte del secondo gruppo.