La parola ambasciatore deriva dal provenzale “ambaisar” che -per strano che possa sembrare- significa servire; un “ambasaidor” è dunque ‘servitore’: qualcuno che serve qualcun altro, qualcuno che serve a qualcosa.

Oggi chiamiamo ambasciatore chi rappresenta il proprio paese presso un altro stato, protegge gli interessi nazionali e dei suoi cittadini sul quel territorio, negozia con il governo ospite, promuove la collaborazione tra il suo paese e lo stato presso cui è inviato: a questo deve servire. Poi -si sa- c’è modo e modo di interpretare il proprio lavoro, c’è modo e modo di proteggere gli interessi nazionali, di promuovere la collaborazione e di stabilire le priorità. C’è dunque modo e modo di fare l’ambasciatore, stili diversi dai quali traspaiono la propria visione del mondo, la propria sensibilità e i propri valori. 

La tragedia consumatasi la settimana scorsa sulla strada fra Goma e Butembo ci ha rivelato -anche attraverso il ricordo e i commenti di amici che lo hanno conosciuto personalmente- la visione del mondo, la sensibilità e i valori che animavano il lavoro dell’ambasciatore Luca Attanasio: un profilo di alto livello, una visione proiettata sul futuro, una sensibilità fuori dal comune, un ambasciatore eccezionale interprete della etimologia del suo ruolo di “servitore”.

Luca Attanasio è stato vittima di un conflitto complesso che va avanti da decenni e tutto è meno che locale, sia perché in tempi di globalizzazione non esistono ‘conflitti locali’, sia perché quel conflitto coinvolge direttamente interessi che riguardano l’intero pianeta. Condizionati da un vizio eurocentrico, tendiamo a considerare gli eventi che avvengono in Africa distanti, periferici e sostanzialmente poco rilevanti, ma vivono oggi in Africa 1 miliardo e 300 milioni di persone che alla fine di questo secolo saliranno a 4 miliardi, sugli 11 dell’intera popolazione mondiale. Mai come oggi “è decisivo come si creano condizioni di vita, di sviluppo, di futuro dignitose in quel continente e come si offre a un’immensa popolazione la possibilità di guardare al futuro con speranza e non con disperazione. È una responsabilità che riguarda l’intera comunità internazionale, ma riguarda soprattutto l’Europa, perché il continente africano è di fronte a noi, si bagna nel Mediterraneo e ogni cosa che lì accade ci riguarda e ci investe” (QUI). Nessuna persona di buon senso può pensare che il destino di 4 miliardi di persone possa essere affidato soltanto a flussi migratori e tutto questo Luca Attanasio lo aveva certamente ben chiaro, vista l’attenzione che riservava ai progetti di cooperazione e agli italiani che vivono e lavorano nella Repubblica Democratica del Congo. 

La cifra del suo agire è stata la capacità e il desiderio di lasciarsi sempre coinvolgere direttamente, senza filtri: il suo frequente viaggiare in quell’enorme paese per far sentire la sua vicinanza alle persone, il suo stile semplice e sobrio, il suo partecipare direttamente alla vita delle comunità visitate quando ne era ospite. Coinvolto, non solo spettatore.

Nell’omelia durante i funerali di stato dell’ambasciatore (QUI), il cardinale vicario di Roma ha sottolineato questo desiderio di coinvolgimento riferendosi alla vicenda biblica di Ester: «Ma Ester – figlia di ebrei e da poco regina – decise che non poteva restare a guardare lo sterminio del suo popolo dalla finestra della reggia. Doveva fare qualcosa, mettendo da parte i suoi interessi privati. Ella non domanda a Dio di intervenire, ma chiede il coraggio necessario per agire, per affrontare senza paura il potente sovrano. In altre parole, Ester supplica Dio di potersi “sporcare le mani”».

E’ forse questa capacità di “sporcarci le mani” l’eredità più preziosa che Luca Attanasio ci lascia. Ognuno nel suo Congo, ognuno col suo stile, ognuno come può.