L’abbiamo sempre saputo che dietro i numeri ci sono nomi, storie, facce, ansie e speranze, ma a forza di leggere i titoli dei giornali sugli sbarchi a Lampedusa finiamo per considerare le cifre degli sbarcati come i millimetri di pioggia, l’andamento del dollaro o i punti di spread: oggi un po’ più su, domani un po’ più giù….

Il film di Crialese “Terraferma” ci fa uscire dal grafico dei barconi in arrivo, uscire dai numeri degli sbarcati per toccarli, sentirne il fiato, guardarli negli occhi e sulla pelle. E’ un film “fisico”, fatto di primi piani e di sudore, di corpi pesanti e occhi grandi, di acqua di mare e sabbia, sabbia a grana grossa, di cui puoi contare i granelli, sabbia calda appiccicata alla pelle e sabbia fredda sul fondo del mare con le ciabatte spaiate, i documenti nelle buste di plastica trasparente, gli spazzolini da denti caduti dalle tasche.

Qui non si parla di “immigrazione” come concetto sociologico, non di “immigrati” come categoria, né di altre culture o di rivoluzioni nel Nord Africa. Non si parla nemmeno di accoglienza e di solidarietà: si parla di persone che si incontrano anche se non vogliono incontrarsi, di storie disperate (quelle di chi sbarca) che entrano in collisione con altre storie disperate (quelle dei pescatori) a complicare storie già complicate. Non ci sono i buoni e i cattivi,  ci sono solo i contrasti, quelli insanabili, quelli per i quali non esistono mediazioni possibili.

Per esempio il contrasto tra la legge vigente (concepita a Bergamo, scritta ad Arcore e votata a Roma) e la “la legge del mare”, quella che non consente di lasciar morire un uomo girandosi dall’altra parte: è forse possibile una mediazione? Qual è il punto di equilibrio, farne morire uno si e uno no? Ovviamente il vecchio pescatore non ha dubbi, la legge del mare va rispettata; ma anche il finanziere non ha dubbi, la legge vigente va rispettata…

O il contrasto tra l’esigenza di accogliere i turisti per produrre l’unico reddito possibile e l’impossibilità di nascondere i corpi arenati sulla spiaggia. Qual è il punto di equilibrio, raccattarli tutti prima dell’alba per garantire le attività di animazione del villaggio?

Nel film “Terraferma” locali e immigrati sembrano estremamente simili, i “diversi” sembrano i turisti, veri marziani sbarcati da un altro pianeta, testimoni distratti di storie che non capiscono: un po’ come noi quando leggiamo sui giornali le storie degli sbarchi.

Dice Ilvo Diamanti nel suo articolo “Quei film sugli immigrati nel paese di terraferma” (Repubblica, 12/09), “Oggi ci scopriamo spaesati. Orfani di un governo che sappia governare e di uno Stato in cui aver fiducia. Così ci sentiamo stranieri a casa nostra. Da ciò la ragione, almeno: una ragione importante, di tanti film italiani sugli immigrati quest’anno, a Venezia. In realtà, parlano di noi. Sperduti e spaesati nel Paese di Terraferma”. E già, parlano di noi: di chi comincia a non sapere più cosa fare e cosa pensare anche senza aver attraversato il mare su un barcone, di chi non è più sicuro di capire la “manovra” anche se non ha problemi di lingua, di chi comincia a sognare migrazioni per i suoi figli perché non riesce più  a credere in un futuro per loro in un paese come questo… proprio come il tunisino e il somalo che salgono su un barcone.

Nessuno verrà da un altro pianeta a risolverci il problema e a costruire una prospettiva migliore. Non ne possiamo più di sperare in tsunami purificatori, elezioni risolutive, uomini della provvidenza, svolte radicali, manovre inutili. La magia non esiste, i miracoli non esistono, le soluzioni semplici ai problemi complessi non esistono, i condottieri sono finiti: esistiamo solo noi, la nostra testa, il nostro buon senso, la capacità di accettare di diventare più poveri e quella di accettare che ci aspettano anni in salita. Non facciamone un dramma. Mai così in salita come il Mediterraneo visto dalla Libia.