Portafogli e frigoriferi vuoti, bollette e rate non pagate, barboni e mendicanti, migranti e rifugiati, disoccupati e bilanci in rosso: fotogrammi di povertà che la crisi ha ampliato e moltiplicato.

Fotogrammi che rivelano una povertà materiale dolorosa, che spesso si consuma senza clamore e si riflette -logorandole- sulle relazioni tra gli individui e i gruppi sociali.

Sappiamo tutti che questa povertà ha cause complesse che non basta identificare o denunciare perché si risolvano magicamente, che il prezzo che stiamo pagando [alcuni molto più alto di altri!] è la cifra di questo periodo storico e che nessuno -malgrado gli ottimismi “obbligatori”- ci può garantire né la guarigione totale dalla malattia, né i tempi del suo decorso.

Ci sono tuttavia alcuni aspetti di questo periodo storico che non derivano direttamente dalla crisi economica, ma ci stanno “impoverendo” progressivamente quasi senza accorgercene.

Stiamo perdendo dimensioni importanti del nostro stare insieme. Ad esempio la capacità di approfondire le cause di quello che succede:  quasi non ci interessa più capire, prendiamo per buono il primo luogo comune e ci accodiamo lamentandoci.

Stiamo perdendo la capacità di cogliere il lato positivo delle cose in un progressivo inaridimento dei sentimenti costruttivi: ci sembra sempre che non ne valga la pena.

Abbiamo possibilità di accedere alle informazioni e di comunicare istantaneamente che erano impensabili solo trent’anni fa e stiamo trasformando questa fantastica ricchezza in sterile frenesia.

Siamo stati contagiati dal virus che ci spinge a considerare “diritto” anche semplici desideri, con il risultato di sentirci costantemente defraudati da oscuri ed anonimi ladri.

Tutto questo impoverimento ha poco a che fare con la crisi economica: ci stiamo facendo del male da soli. Non è una  buona idea e soprattutto non diamo affatto una mano a chi verrà dopo di noi.