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In Italia si nasce sempre di meno: negli anni ’60 nasceva un milione di bambini ogni anno, nel 2022 i nati sono stati appena 393 mila, il numero più basso dall’unità d’Italia. La popolazione è scesa quest’anno sotto i 59 milioni.

Sintetizzando qui la lucida analisi di Carlo Cottarelli, le cause “tecniche” sono note: il tasso di fertilità -numero medio di figli per donna- si è dimezzato dal 2,5 alla fine degli anni sessanta a 1,3 di oggi; ci sono meno genitori perché già trent’anni fa c’erano meno nati; non sono più sufficienti i due fattori che compensavano -in parte- il disavanzo tra nati e morti, cioè l’aumento dell’aspettativa di vita e l’immigrazione

Gli effetti più gravi riguardano: il numero di quelli che vanno in pensione ormai superiore a quello dei nuovi entranti nel mondo del lavoro; il tasso di crescita della produttività (più basso quando la popolazione è più anziana) e la carenza di lavoratori in settori sempre più ampi (dai medici agli agricoltori).

Le soluzioni sono ricercabili solo in due direzioni: la prima è rialzare -sui tempi lunghi- il tasso di fertilità con politiche di spesa pubblica (quelle che hanno funzionato meglio in altri Paesi sono la disponibilità di asili nido e la generosità dei congedi parentali); la seconda è definire e perseguire adeguate politiche di immigrazione regolare e coerenti pratiche di integrazione. 

L’attuale governo -se troverà le risorse per farlo- sembra considerare percorribile solo la prima ipotesi [quella di rialzare il tasso di fertilità con politiche di spesa pubblica], cioè quella più costosa, dall’esito più incerto e -per quanto riguarda la forza lavoro- differito di decenni;  mentre intende contrastare decisamente la seconda ipotesi [quella di definire e perseguire politiche di immigrazione regolare] considerandola una “resa all’idea della sostituzione etnica”, una sorta di inquinamento della “italianità”, della quale ha evidentemente una concezione cromatica e razziale.

Il cuore di ogni nazionalità non si colloca certamente né nel pigmento della pelle, né in una indefinibile “purezza” cromosomica [sogno ricorrente di tutti i razzismi!], ma piuttosto nella condivisione della lingua, della cultura e delle leggi. E’ intorno a questi tre poli -lingua, cultura e leggi- che tutte le nazionalità si formano, si evolvono e, talvolta, si fondono. I cavalli e i cani si possono definire in base al loro colore e al loro corredo cromosomico, gli uomini costruiscono la loro identità sociale in base alla lingua che parlano, alla cultura in cui si riconoscono e alle leggi che osservano.

Se si vuole davvero invertire la decrescita demografica e arginare i gravi problemi che comporta occorre perseguire entrambe le strade: investire sulle condizioni che consentano ai “già italiani” di fare più figli e investire su politiche migratorie che consentano ai “non ancora italiani” -che intendono condividere la nostra lingua, la nostra cultura e le nostre leggi- di poterlo fare. 

Per avere di nuovo culle piene, ad una lucida e coerente volontà politica, occorre forse affiancare un non secondario “ingrediente ambientale” la cui definizione rubo a Michele Serra: “un clima più gentile e più allegro, come capita di trovare in Paesi più poveri eppure meno ingrugniti del nostro. La voce della nostra politica, complessivamente stizzita, aggressiva, mai rilassata, raramente capace di mitezza e di speranza, sembra lo specchio di un popolo di incazzati, con i media che fanno eco a ogni imprecazione come se fosse un discorso di Gandhi. Non viene voglia di nascere in un Paese nel quale si litiga già attorno ai neonati.”