Ho appena finito di leggere un libro molto interessante che segnalo ai cultori di problemi politici e sociologici: “La fine del potere”, di Moisés Naìm (Mondadori, 2013); libro sconsolante per alcuni aspetti e consolante per altri, come cercherò subito di dire.

In sostanza il volume analizza, con chiarezza ed ampiezza di documentazione su scala globale (tipiche della saggistica americana), le sconvolgenti mutazioni  che negli ultimi decenni si sono prodotti a carico del potere e del suo esercizio, per effetto della rivoluzione delle tre “M” (More, Mobility e Mentality) che si è prodotta a livello mondiale: siamo in molti di più (More, in inglese) e complessivamente assai più ricchi e più sani di quanto lo eravamo solo pochi decenni fa, certamente anche nei paesi più poveri (checché ne pensino gli apocalittici del progresso economico, che di solito non amano fare i conti coi numeri) e quindi siamo diventati più difficili da controllare; ci muoviamo molto di più attraverso i nostri paesi e attraverso il mondo (Mobility), con le nostre idee, le nostre personali aspettative di felicità, i nostri capitali, le nostre stesse persone e ci mescoliamo culturalmente, anche grazie alla straordinaria disponibilità di tecnologie della comunicazione; ed infine e per conseguenza, anche grazie alle minori età medie delle grandi masse di popolazioni emergenti, abbiamo conseguito un’attitudine (Mentality) alla messa in discussione di valori e codici comportamentali che costituivano la spina dorsale delle nostre società ed il puntello del potere che vi si esercitava fino a qualche decennio fa.

Insomma, il potere… non è più quello di una volta (come pare lamentino gli alti burocrati della società cinese) e le sue quattro armi tradizionali (forza, regole, capacità di persuasione e ricompensa) hanno perso gran parte della loro efficacia, proprio per la forza travolgente delle tre M; sicché oggi i detentori del potere (politici e partiti delle democrazie o autocrati residui, ma anche grandi corporations e grandi banche) faticano enormemente di più a tenere in mano le leve del comando, assediati come sono da masse di micropoteri che distruggono o scavalcano le barriere delle quali il potere si è sempre circondato, mettono in discussione ogni decisione e ogni decisore, ne ostacolano l’effettività e l’efficacia, minano la solidità del potere delle maggioranze rendendole effimere e mutevoli (“è come se una centrifuga politica avesse preso gli elementi costitutivi della politica tradizionale per poi disperderli in una nuova e più ampia cornice”)

Il libro non può essere riassunto nello spazio di un blog, naturalmente; fra l’altro, la congerie di dati che allinea in ciascun capitolo va letta e meditata anche per sovvertire e relativizzare, in un’ottica globale, molte delle negative sensazioni che abbiamo sul nostro presente di Italiani e che dolorosamente immaginiamo magari solo nostre; e anche per renderci conto di come le nostre involuzioni, se da un lato si rispecchiano in fenomeni tutt’altro che sconosciuti in altri e non secondari paesi, dall’altro sono fronteggiate da grandi evoluzioni di cui beneficiano popolazioni che siamo stati abituati a pensare marginali al nostro immaginario mondo Italia-centrico. Questa, come avrete capito, è, in fondo, la parte in qualche modo “consolante” del libro.

Quella sconsolante sta tutta nelle – secondo me –  assai deboli conclusioni dell’autore che, in fondo, immagina un semplice rispolveramento di valori quali la fiducia, la partecipazione ed il rafforzamento dei pencolanti partiti; rispolveramento che forse l’autore stesso percepisce fortemente insufficiente di fronte agli ulteriori, inevitabili rinnovamenti del mondo che in fondo preannuncia. Questa parte, di sapore parenetico, è, secondo me, la più debole del libro anche se non priva di spunti convincenti, quali l’esortazione a non guardare alle dinamiche del potere in termini di ascese e discese e quella a rendere la vita difficile ai ciarlatani (vasto programma! direbbe De Gaulle).

La “verità” che l’invece assai interessante analisi propone porta a credere che, se il potere non è più quello di una volta è soprattutto perché il mondo non è più quello di una volta; e con questo “nuovo” che è stato e che ancora sarà non è detto che siamo preparati a fare i conti.