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Non è il titolo del famoso film del 1983, ma il sottotitolo dell’inverno che sta iniziando. E’ il grande freddo che provo quando accendendo la luce, accostando la mano al termosifone o aprendo l’acqua calda della doccia non riesco a non pensare ai milioni di ucraini con le case al buio, i termosifoni gelidi e la doccia inutilizzabile. E’ il grande freddo che provo quando constato la nostra impotenza o incapacità di evitare tutto questo dolore, questi lutti, questo odio. A cosa serve studiare la storia, filosofeggiare sui diritti umani o inanellare raffinatissime analisi politiche sulle cause e gli effetti se poi non si riesce né a incidere sulle cause, né a limitare gli effetti di una tragedia di queste dimensioni?

Dal 24 febbraio a oggi, fonti militari hanno calcolato 240 mila vittime, tra soldati dei due eserciti e civili ucraini. Oltre diecimila mezzi da combattimento sono andati distrutti e almeno tre milioni di proiettili sono stati esplosi dalle artiglierie rivali, sbriciolando intere città (queste ultime solo in Ucraina). Le diplomazie mandano messaggi contradditori, che si infrangono contro muri d’odio. C’è però una realtà, ammessa dal capo di Stato maggiore americano Mark Milley: non esiste possibilità di vittoria (per nessuno dei due eserciti).

Venerdì scorso anche Papa Francesco ha manifestato la sua vicinanza al popolo ucraino: “Sulla vostra terra, da nove mesi, si è scatenata l’assurda follia della guerra. Nel vostro cielo rimbombano senza sosta il fragore sinistro delle esplosioni e il suono inquietante delle sirene. Le vostre città sono martellate dalle bombe mentre piogge di missili provocano morte, distruzione e dolore, fame, sete e freddo. Nelle vostre strade tanti sono dovuti fuggire, lasciando case e affetti. (…) In questo mare di male e di dolore -a novant’anni dal terribile genocidio dell’Holodomor- sono ammirato del vostro buon ardore. Pur nell’immane tragedia che sta subendo, il popolo ucraino non si è mai scoraggiato o abbandonato alla commiserazione. Il mondo ha riconosciuto un popolo audace e forte, un popolo che soffre e prega, piange e lotta, resiste e spera: un popolo nobile e martire.” Il papa cita l’Holodomor, il nome attribuito alla carestia che fu provocata sul territorio dell’Ucraina dal 1932 al 1933 dall’URSS, causando da 7 a 10 milioni di morti: è la tragedia nazionale del popolo ucraino. Sono passati novanta anni, ma il ricordo di quel genocidio è rimasto nella storia e nella memoria degli ucraini marcato in modo indelebile. Nessun fatto è chiuso in se stesso, la storia che verrà sarà figlia di quello che è stato. 

Daniele Raineri, uno degli inviati a Kiev, riferisce che “circa il settanta per cento degli edifici della capitale non ha energia elettrica ed è senza acqua corrente, per scaricare i bagni ci vogliono taniche e secchi e neve sciolta. La temperatura fluttua attorno allo zero, ma tutti sanno che tra poco scenderà di altri dieci gradi. La capacità dell’Ucraina di ripristinare la rete elettrica si degrada bombardamento dopo bombardamento e presto o tardi varcherà il punto di non ritorno. Nel buio, gli ucraini hanno inteso il senso della sfida e per ora non si lamentano e non c’è panico. Capiscono che è Putin che li vuole esposti al freddo, si va verso un’altra prova collettiva di resistenza. C’è da vedere quanto durerà questo spirito ucraino nei mesi che vengono, perché se verrà a mancare l’unica salvezza è spostarsi verso l’Europa riscaldata”. Stalin nel 1932 utilizzò la fame per piegare gli Ucraini, Putin nel 2022 sta utilizzando il freddo: l’effetto è lo stesso.

Non è difficile, dal caldo delle nostre case, descrivere questa tragedia e auspicare che presto “si trovi” una soluzione; ma le soluzioni non “si trovano” da sole, bisogna trovarle insieme esplorando tutte le strade possibili. L’Unione Europea ha fin qui correttamente e coerentemente percorso la strada delle sanzioni all’aggressore e del sostegno all’aggredito, ma -a meno di non restare in tribuna ad attendere Godot mentre lo scempio prosegue- occorre lo sforzo etico e creativo di esplorare anche altre strade, inventando soluzioni alternative, mediatori alternativi, mediazioni non esplorate, pressioni indirette… non lasciando -insomma- nulla di intentato. Ovviamente  non so quali possano essere queste altre strade, ma -se abitassi a Kiev invece che a Roma- mi augurerei che qualcuno le trovasse.

L’esito di questa guerra -quale che sarà- non equivarrà ad una pratica archiviata e chiusa perché  gli eventi che viviamo e il modo in cui li conduciamo sono i semi del futuro: nel bene o nel male germoglieranno, producendo relazioni positive o preparando nuovi conflitti. Trovare presto una risposta è allora una responsabilità verso il presente e verso il futuro.