Spingersi con gli occhi – e il cuore –  lì dove lo sguardo della gente spesso sfugge. Questo è il pregio principale della ricerca svolta da una giovane studiosa di antropologia, Daniela Barbucci, che nella sua tesi di laurea, intitolata significativamente “Essere al limite”, ha scelto di osservare – e descrivere con encomiabile lucidità –  la realtà dell’Ostello della Caritas di Roma.

E “La percezione dello spazio d’accoglienza” è infatti il sottotitolo del lavoro. Una percezione che è in primo luogo filosofica, dato che la Barbucci apre la sua ricerca con una bella digressione sul concetto di spazio e tempo così come sono definiti nella riflessione filosofica contemporanea.  Tempo come “presente esteso”, di cui – come rileva la Barbucci – “non riusciamo a dominare la molteplicità di eventi, cose, persone, di cui ci sfugge la produzione ed espansione della vita individuale” . Un presente assottigliato fino quasi a sparire, depauperato dal ritmo frenetico di questa epoca,  che ci vede “incatenati fra l’imprevedibilità del futuro e i rimpianti del passato”.

Spazio inteso non solo come entità geometrica, la res extensa cartesiana, ma in primo luogo come “spazio esistenziale”. Quello cioè  che “condividiamo con il nostro gruppo sociale, con la nostra comunità”.

Due variabili in continuo mutamento, così come impone la “surmodernità”, concetto che l’autrice riprende dagli studi del grande antropologo Marc Augé, e che si caratterizza proprio per la natura dei fenomeni che vi si svolgono: “ il tutto ad una velocità elevata, in quantità elevate e con una frequenza elevata”.

La seconda parte della ricerca ha invece un impianto più sperimentale. La Barbucci ci accompagna infatti, passo dopo passo, nei locali dell’Ostello della Caritas di via Marsala, descrivendo lo spazio e il tempo dei tanti ospiti che ogni giorno affollano gli ambienti della struttura  voluta da Don Luigi Di Liegro nel lontano 1987. Un luogo che in questi anni, senza sosta,  “ha dato spazio, voce, riposo e conforto a migliaia di uomini e donne”. Descritto da un punto di osservazione straordinario, dato che la Barbucci ha trascorso 150 ore come volontaria presso l’Ostello, un periodo durante il quale, come afferma, “ho potuto conoscere molto da vicino una realtà che molti rifiutano di vedere e di considerare parte del tessuto sociale e civile della società”.

E qui il lavoro diventa a un tempo testimonianza e studio attento, analitico del fenomeno marginalità. Veniamo quindi a scoprire la realtà di quei “non luoghi” per antonomasia – riprendendo ancora una definizione di Augé – che sono le stazioni. Dove si affollano ogni giorno migliaia di uomini e donne spinti ai margini della collettività. Gli indesiderabili, per questa società dove molto sembra misurarsi in funzione della capacità e dei ritmi di consumo dell’individuo.

Lo sguardo della Barbucci è insieme quello della studiosa e della volontaria che, insieme agli amici della parrocchia romana di Santa Barbara in Capannelle, crede nella possibilità di un cambiamento e si impegna in prima persona per attuarlo. Iniziando a restituire fisicità e speranza a quei tanti che ogni giorno sembrano averla perduta.

Portano addosso il segno del dolore, della fame e della solitudine, dell’abbandono della propria terra e della propria famiglia. Sono padri, madri, anziani e giovani, italiani e stranieri che cercano di ritrovare la strada della loro vita. Nel momento in cui decidono di entrare nei centri di accoglienza, tornano a dare senso al mondo, attraverso la riacquisizione della propria corporeità, dell’esserci nel mondo”.

Un processo che, per essere riattivato, ha bisogno di uno slancio intenso. Una spinta che ha un nome dolcissimo, “carità”. Perché, come afferma l’autrice citando San Paolo,  “se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, non sarei nulla”.