Premessa

Non sono un politico; e lo dico senza spocchia, anzi con umiltà perché al politico, così come lo si vorrebbe intendere nelle migliori accezioni, occorrerebbe attribuire virtù che non credo di avere. E, prima fra queste, una capacità di lettura, di indirizzo e di governo delle emozioni degli altri (che vedo chiare, per esempio, in amici notevoli che considero naturaliter politici, o se volete, empatici per natura o per studio). Io, pur ritenendomi (senza merito) ricco di emozioni (anche intense), certamente tendo a pormi verso le cose da fare con approccio an-emotivo, temendo soprattutto il fluttuare delle emozioni ed il loro pessimo influsso sulla determinazione attiva.

Sono un pessimista, dicono i miei amici; ma al di là dei sofismi che più volte ho fatto su pessimismo/ottimismo, non mi sento tale; starei per dire che, invece, sofismi a parte, mi sento un ottimista nel senso che mi piace pensare che in ciascuno di noi ci siano risorse inesplorate di positiva vitalità, talora compresse dai gravami sub-culturali ormai dilaganti ma non per questo alla fine necessariamente trionfanti.

Per ragioni di vita, sono più abituato a parlare coi vecchi che coi giovani: in fondo la seniority crea un’abitudine relazionale che non viene intaccata nemmeno nei tanti contatti che, per lavoro, ho coi giovani; e ciò per due motivi: perché in fondo i giovani da me si aspettano opinioni senior e perché, per ragioni professionali, molti dei giovani che vedo hanno o si attribuiscono una gravitas che ritengono adeguata al loro status professionale.

Credo nel tempo (talora) galantuomo, ma non riesco mai ad attribuirgli il “suo” tempo; e nella storia, ma con approccio manzoniano, se mi è consentito dire.

Ho una concezione dell’uomo (credo profondamente) cristiana; una bella immagine usata dal P. DeBertolis mi pare rispecchi questa concezione: in fondo siamo tutti, chi più e chi meno, piccole o grandi pozzanghere di fango, che, però, quando sono illuminate dal sole, possono risplendere come piccoli soli, perché, in fondo, “senza di Lui non possiamo fare nulla” o, come mi piace leggere, “senza di Lui possiamo fare il nulla”.

Bene (o male, non so): con tutte queste caratteristiche (e con altre meno “edulcorate” che taccio per pudore e per non intaccare il mio autocompiacimento) mi sarebbe proprio difficile mettermi le penne del politico.

Ma, poiché amo le sfide “culturali”, vorrei tentare di raccogliere quella gettatami da un amico:”prova ad avere pulsioni generative!” invece di crogiolarti (il termine è forse proprio adatto) nell’”ebrezza funerea del cupio dissolvi”. E quindi proverò a scrivere un discorso (rivolto ai giovani, per rendere più complicata la sfida!) che farei se fossi un politico.

 

Il discorso

Cari giovani del nostro tempo e del nostro Paese,

l’Italia è giunta ad uno snodo dolente della sua storia recente: da un lato, il nostro paese non è cresciuto culturalmente di pari passo col suo (apparente) status economico; siamo, orgogliosamente, fra i paesi economicamente più sviluppati del mondo ma siamo anche fra i paesi meno istruiti dell’occidente, cioè del nostro mondo. Abbiamo condizioni di (relativo) benessere da paese avanzato, ma ogni giorno vediamo crescere i dati negativi sul presente e sul futuro; ogni giorno vediamo erosa la nostra condizione relativa, verso gli altri membri della nostra comunità occidentale e verso i paesi che prepotentemente si affacciano al benessere e alla crescita. Dall’altro lato, siamo portati da una serie di circostanze non imprevedibili a constatare la fragilità dei nostri “punti di forza”: abbiamo costruito il nostro benessere e la nostra crescita in gran parte sul debito, spendendo, in servizi scadenti ma estesissimi e in welfare non sostenibile, redditi che non avevamo conseguito, illudendoci di avere una capacità di reddito e di spesa che in realtà non avevamo e che pagavamo con enormi “pagherò” verso il mondo e verso il nostro risparmio; abbiamo vissuto nell’illusione che le svalutazioni della nostra moneta potessero puntellare una competitività che sarebbe stato faticoso raggiungere sul piano reale; abbiamo costruito attorno a noi uno stato soccorritore, stimolatore, sostenitore, al quale tutto chiedere quando non sentivamo le forze per fare.

E di chi è la colpa di tutto ciò? Ammettiamolo, è di ciascuno e di tutti noi! Dei politici (dell’una e dell’altra parte) dissennati coltivatori delle nostre pigrizie; di noi elettori che li abbiamo via via e con (apparentemente) alterne vicende, confermati nel ruolo di propinatori di illusioni; di noi (vecchi goderecci o giovani mentalmente pigri) che abbiamo usufruito di tutto ciò che costruivamo con risorse degli altri senza porci il problema di doverle prima o poi restituire; di noi tutti piccoli evasori fiscali o contributivi, piccoli statalisti irresponsabili; dei nostri corpi intermedi (partiti voraci di potere e non solo, sindacati corrotti e conservatori, burocrazie cieche e miranti solo all’autoconservazione, manager che si fanno pagare per non fare, perché fare stanca e poi, in Italia, è pericoloso); di voi studenti pigri e malpreparati, tatuati e ben vestiti, che chiedete ai genitori più play stations e meno libri, più vacanze all’estero e meno studio delle lingue straniere, più mini-car e meno corsi di formazione; di noi genitori che vi abbiamo accontentato per non avere noie educative e per compiacimento del vostro indulgente benessere; e così via, potrei proseguire a lungo, senza lasciare alcuno fuori del recinto della responsabilità.

E allora, direte voi giovani del nostro tempo e del nostro paese? Che dobbiamo fare, rassegnarci al maggior declino che il declinato presente ci garantisce? Aspettare che ci rimpiazzino dovunque ingegneri indiani o medici orientali, che parlano una lingua che non abbiamo studiato? E dove potremmo trovare le energie per rimontare la china che abbiamo disceso insieme a voi adulti, che pure ci avete guidato e ci avete anche fatto stare (apparentemente) bene?

Ecco, io vi propongo un cammino in tre punti, al termine del quale oserò anche formularvi una proposta di voto.

Anzitutto, chiedete di capire: chiedete di capire la verità sulle nostre vere condizioni; fatevele spiegare bene, senza accontentarvi di spiegazioni faziose e pre-confezionate, sottoponendo tutto ciò che vi viene detto a scrupolosa verifica critica, facendovi semplificare da persone affidabili quello che può apparirvi più complicato capire e che in fondo, ve ne accorgerete facilmente, non è poi così complicato come i nostri politici talora vogliono che sembri.

Anche ciò che vi ho detto io sul nostro snodo dolente, verificatelo con numeri, dati storici, analisi affidabili. Diventate cultori della verità (con la v minuscola, qui, ovviamente) e ricordate che questa verità è misurabile. Mentre cercate di capire, però, non cercate le colpe: ve le ho già dette e credetemi ne sono convinto: sono di tutti, e dopo che avrete capito come stanno le cose sarà facile anche a voi darmi ragione. Se cercate le colpe mentre ancora non avete capito tutto chiaramente, cadete nella logica delle fazioni, alimentate queste dinamiche che ci hanno rovinato. E, se cercate le colpe mentre cercate di capire, non vi sarà facile fare il secondo passo che vi suggerisco: il perdono. Fatemi credito, per un momento: se è vero – come io penso – che, per quanto inegualmente distribuite, le colpe sono di tutti, non ci resta che la strada del reciproco perdono. Voi direte che questa parola non è usuale nel linguaggio politico; ma non vedete che è proprio il linguaggio politico che ci fa velo alla comprensione della verità? Non pensate che, anche cambiando il linguaggio, faremo già opera di verità e di costruzione? Il perdono, lo sento già dire da quelli tra voi che si definiscono laici, è virtù cattolica (o forse cristiana); è vero, lo è, direi per eccellenza. Ma è anche virtù pratica quando l’intrico delle colpe è così radicato e inestricabile come quello della nostra storia degli ultimi trent’anni. Non abbandonarsi al perdono civile (o politico se volete) significa perpetrare lo spirito di fazione che ha ucciso il nostro paese. E voi, se volete costruire il vostro futuro, non potete perpetrare lo spirito di fazione che ci ha portato alla rincorsa dello spaccio di illusioni, la vera droga civile che ci siamo propinati. Ci sarà, certo, chi ha da farsi perdonare più di altri, chi beneficerà del vostro perdono anche al di là dei suoi meriti: pazienza! Essere generosi aiuta sempre!

Su queste due basi è possibile fare il terzo passo, forse il più duro da porre in essere: accettare che per un po’ ci resta solo tanta fatica da fare. La fatica la potete sopportare voi giovani più di noi anziani che siamo anche stanchi; ma noi promettiamo di esservi vicini, di lasciarvi fare perché ci avete perdonato e noi vi abbiamo perdonato le pigrizie che pure vi abbiamo insegnato. È una fatica cieca quella che vi propongo? No, è una fatica che intravvede, anzi, la via di uscita non solo perché, al mondo d’oggi, solo la fatica paga ma anche perché è una fatica che potrete fare servendovi di strumenti di cui abbiamo abbondanza. E quali sono questi strumenti? Gli strumenti li troverete nelle risorse di cui disponiamo come umanità fortunata, perché in fondo, guardate, cari giovani del nostro tempo e del nostro paese, che noi siamo un’umanità fortunata: perché intelligente, vitale, beneficata da una terra meravigliosa per natura e per arte, e anche simpatica. Perché le nostre risorse di umanità, di inventiva, di storie di successo, sono lungi dall’essere morte, anzi attendono di essere utilizzate con maggiore intelligenza e determinazione di quanto non abbiamo fatto fino ad oggi. Solo che voi lo vogliate.

Vengo infine all’ultimo messaggio che vorrei consegnarvi, cari giovani del nostro tempo e del nostro paese: la proposta di voto. Non sarà una proposta partitica ma una proposta di metodo, peraltro implicita in quanto siamo venuti dicendo fin qui.

Votate, quando ne sarà il tempo, per coloro che non vi ostacoleranno con le loro menzogne nel lavoro di capire; per coloro che non metteranno, con la loro rabbia interessata, ostacoli alla vostra disponibilità al perdono civile; per coloro che vi garantiranno le condizioni migliori per esercitare la vostra fatica. Spazzate via ogni residuo di vecchio statalismo, pretendete che vi si lasci liberi di fare, che non vi si intralci nel ridisegnare uno stato meno presente e meno oppressivo, riprendete in mano voi le cose che lo stato non ha dimostrato di saper fare, prima di tutto l’assistenza ai più deboli, e pretendete che lo stato si occupi solo di non ostacolare anzi di agevolare il suo restringimento: di troppo stato siamo morti, di meno stato possiamo (anzi, potete) risorgere. Votate per chi non usa slogan vuoti, non ha soluzioni preconfezionate, ispirate ad ideologie novecentesche ormai tramontate dovunque. Votate per chi ha studiato ciò che propone, votate per chi parla alla testa e non alla pancia. Votate per chi non guarda all’Europa come ad una nemica ma come un’opportunità per tutti di una patria più grande. Votate anche per chi porterà in Europa il vostro messaggio di fiducia nel futuro.

Forse non troverete in un partito tutte queste cose, non mi sembra che tiri quest’aria da noi. Ma nemmeno posso escludere che ci siano persone, qua e là, disposte a farsi carico politico delle vostre istanze se saprete rappresentarle con fermezza, senza rabbia e senza paura.

Il cambiamento politico che potrete innescare è talmente rivoluzionario che solo dei giovani possono volerlo e portarlo avanti: esso spaccherà, forse, la politica italiana, pazienza. Sta a voi farne innamorare il paese, come in fondo fecero, per progetti assai meno intelligenti, i giovani che diffusero, ben al di là dei suoi meriti, lo spirito del 68. Un nuovo 68, stavolta non ideologico, stavolta creativo, stavolta teso ad un futuro moderno, stavolta non violento perché basato sulla verità e sul perdono, è alla vostra portata.