Si chiude l’anno 2012, certo non un bell’anno (“anno bisesto…”) e comincia il 2013 che speriamo – è d’obbligo – sia migliore per tutti, e, in astratto, non dovrebbe essere difficile!

Siamo tuttavia, come “comunità nazionale”, alla disperata ricerca di una chiave per uscire, come direbbe Borges, “dai tardi labirinti della mente”, forse senza aver “appreso la veglia” nei tanti anni di sonno delle nostre coscienze civiche durante i quali non abbiamo capito o voluto capire le fragilità del sistema economico, politico e valoriale che andavamo tessendo e gli inganni delle autorappresentazioni che hanno progressivamente sfarinato la nostra società e messo a nudo la natura sociologica della nostra crisi, giunta fino al confine dell’(irreparabile) “danno antropologico”.

Forse, come dice De Rita, ci resta, acuita dall’istinto di sopravvivenza, una sorgente percezione di “quanto sia essenziale nei pericoli difendere, riprendere, valorizzare ciò che resta di funzionante dei precedenti processi di sviluppo” e di “ciò che non abbiamo fatto e resta da fare”.

Ma questa duplice “restanza” potrebbe non bastare, da sola, per farci uscire, rinnovati e saldi, da questo passaggio “civile” che ci aspetta nel giro ormai di poche settimane, quando il “bivio”, che avvertivamo sopraggiungere già nella primavera scorsa, sarà divenuto ineludibile e vedremo finalmente cosa pensa di sé e per sé cosa vuole questo Paese: populismi ed ideologie e altre favole e nuove illusioni per un breve tratto; o vera coscienza dei problemi e volontà di  affrontarli con determinazione serena e vigoroso senso della realtà, “stamina” che certamente sono alla nostra portata; ma che esigono, l’ho detto altre volte, il riuso cosciente di parole obsolete (verità, perdono e fatica) delle quali vedo solo sillabe incomplete.

Purtroppo però “il bivio” lacera dall’interno anche le nostre “forze” politiche migliori, almeno per come ora si stanno schierando, facendole oscillare fra esigenze elettoralistiche e animose memorie del passato, da un lato, e conclusiva e coraggiosa ansia di vero rinnovamento nella continuità delle opzioni fondamentali, dall’altro.

E, ancora purtroppo, “il bivio” passa anche all’interno della nostra “città” e della sua usurata classe dirigente, forse anche fra noi: e questo, se possibile, è ancora più preoccupante, perché rischia di impedire la maturazione di un affidabile pensiero collettivo che, pur nelle naturali differenziazioni politiche, dovrebbe costituire un perimetro comune entro cui delimitare una dialettica democratica moderna: dopo aver tanto disperso (nelle idee, nelle decisioni e nel linguaggio) non è facile ridare consistenza, appunto, ad un pensiero collettivo.

È invece facile prevedere, in questo contesto, che i prossimi mesi saranno politicamente drammatici, come sempre lo sono i tempi che mettono a duro confronto antitetiche diagnosi e cure ancora più antitetiche: non sarà, temo, solo tempo di linguaggi incontrollati e di disperate violenze verbali, che già abbiamo visto dipanarsi con opprimente larghezza. Sarà anche tempo di lunghi sconforti e di blande speranze “mondane”: ma (cito ancora De Rita) il nostro robusto “scheletro contadino”, avvezzo a lunghe fatiche e ad attese tenaci fatte di capacità di semina, di fiducia nel tempo, di cura caparbia dei germogli, di orgoglio per i frutti quanto più ne è stata difficile la coltivazione, non ci abbandonerà; è ancora giusto sperarlo, perché gli esiti migliori che è lecito attendersi da questo processo che è in corso non sono già morti (e ci sono in corso anche buone semine). In fondo, tante volte c’è nebbia quando il contadino esce per arare.

E poi, nel nostro comune patrimonio di umane saldezze, sono scritte promesse che ci rimandano a tempi lunghi ma anche ad esiti sicuri: portae inferi non praevalebunt (Mt 16,18).

L’augurio che formulo a tutti gli amici lo traggo da una frase di sant’Agostino: Deus non deserit, si non deseratur (Dio non abbandona se non è abbandonato). Proviamo a portarci dietro per tutto l’anno questa certezza.